TRA FIABA E TREGENDA ONIRICA IL TERRIBILE SCHIACCIANOCI IMPERVERSA

Carmelo Fucarino

Dopo la tempesta razziale che scambiò anche alla Scala i Russi, sudditi e perseguitati dagli zar, come seguaci della pazzia fascista di Putin, per i teatri lirici italiani il Natale è tutto russo. Forse il là alla viralità può essere stato fornito dal tema di “fiaba di Natale”, ma ritengo che non è avvenuto spesso che i teatri prestigiosi italiani del bel canto risuonassero e danzassero all’unisono nel celebrare a modo proprio il Natale con la fiaba di Natale per antonomasia, Lo schiaccianoci, il dibattuto, controverso e multiforme tra gli infiniti adattamenti, soprattutto filmici, con la presenza anche di Disney, trasformato nel 1891 in balletto sulla musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Il testo narrativo è stato ripreso nel 1844 in una versione più mite anche da Alexandre Dumas senior, ma la vicenda ci richiama il paradigma della favola di Natale da A Christamas Carol di Charles Dickens tra paurosi spiriti e spettri tenebrosi. In tema di virilità in fase di COVID e nell’era di più radioso avvenire del virale virtuale ha avviato la saga il 3 e 4 dicembre il Teatro degli Arcimboldi di Milano, lo ha seguito il Teatro Massimo di Palermo il 16 dicembre, dallo stesso 16 lo ha proposto il Teatro regio di Torino, dieci recite, nell’esecuzione del Balletto dell’Opera di Tbilisi, diretto Nina Ananiashvili su suo libretto, a ruota ancora ha seguito a Milano la Scala dal 17 dicembre 2022 all’11 gennaio 2023, con una sua produzione, un suo corpo di ballo e voci bianche dell’Accademia e gli allievi della sua scuola di ballo, con coreografia e regia di Rudolf Nureyev, direttore Valery Ovsyanikov, scene e costumi di Nicholas Georgiadis, protagonista Corpo di Ballo, Jacopo Tissi. Una prestigiosa produzione che invita a rivedere questa antica versione e fare un salto a Milano per i dovuti eccelsi confronti con il re insuperato del balletto. La fiaba, creata come Schiaccianoci e il re dei topi (Nußknacker und Mausekönig, 1816, poi in raccolta con I confratelli di Serapione, quattro volumi usciti tra il 1819 e il 1821) da E. T. A. Hoffmann (1776-1822), pittore e giurista di Königsberg, ma anche musicista e scrittore romantico di racconti che andavano dal poliziesco ante litteram, all’horror alla Poe, al grottesco e al fantastico, racconti che ispirarono musicisti, celebre Jacques Offenbach con i suoi Racconti di Hoffmann e La sposa sorteggiata di Busoni. La struttura narrativa del testo del balletto è di Marius Petipa. A Palermo è stata creata una suggestiva versione pro loco, “sicula”, sulla scia dell’ormai consueta attualizzazione di fatti e costumi, ma anche di topologia e ambientazione scenica, anche i simbolici fichidindia di una nostra regista di fama nazionale o i tipici carretti, ultima l’immondizia a piazza Pretoria o Vergogna in simbiosi. Qui il richiamo originario dei dolci natalizi, che apriva il balletto in cucina con chef e cuochi tra dolci e caramelle per i bambini che riprendeva in seguito, offre una particolare lettura ai coreografi Jean-Sébastien Colau e Vincenzo Veneruso nella parte finale l’occasione di una sfilata della varietà e specialità dolciaria palermitana che è stata perpetuata dalle suore del monastero di S. Caterina, da qualche anno rinata e affidata ad una organizzazione per promuovere la loro produzione presentata secondo l’antico ricettario ottocentesco. Così la tipica e cromatica frutta di Martorana, la Sette veli, il Cannolo, la Cassata, riproposti da Cécile Flamand. Ma simbolo onnicreativo e protagonista il Cannolo che balla e improvvidamente si divide. L’avvio rispetta questa connotazione locale con il banchetto di Dario, il misero ambulante, tipico delle nostre strade popolari, mentre vende insieme al fratello Pietro castagne e calia e semenza. Proprio Pietro subisce l’incantesimo del Re dei topi di rimanere chiuso nel guscio di legno del pupazzo Schiaccianoci, metafora di quella impossibilità di comunicare con gli altri tra malattie e droga, l’esclusione sociale, prigionieri materiali, ma anche nell’incomunicabilità che ha scritto la storia culturale e umana da Pirandello al memorabile trio di Antonioni, L’Avventura (1960), La notte (1961) e L’Eclissi (1962), oggi più grave in un sistema sempre e intensamente interconnesso, tra cellulari e computer e satelliti. In questa versione inoltre si oppongono due universi asimmetrici, la casa sontuosa del Natale prospero e felice, con bimbi vezzeggiati tra lezioni di danza e giochi e il mondo esterno dei miseri bambini di strada tra miseria e insoddisfazione, ma anche solitudine e erocia di strumenti della moderna società. I due coreografi del Massimo hanno voluto mettere in luce questo stacco sociale, il contrasto che si va sempre più divaricando, specie tra Nord e Sud. E poi il pathos che è riservato al Re dei topi, sempre affamato e degno di pietà più che di cattivo trituratore, il metà uomo e metà topo, prototipo ed esecrazione di questa natura degradata e mistificata, in cui è stata profanata e stuprata la sua vera, primordiale essenza, in nome e per conto di una pseudo-scienza asservita ai piaceri, alla semplice e immorale fruizione, la voluptas umana. Sarà alla fine quell’ape virgiliana, simbolo dell’anima spirituale e della vita a sciogliere il dramma nella levità onirica del Valzer dei fior, salvezza e riscatto per questa umanità che ha perduto e deturpato tra umano ed animale la sua natura. Proprio all’arrivo di Dario e Maria in teatro dopo il lungo errare che “sembra durare giorni”, nella crasi da tempo imposta tra centro urbano e periferie, la barriera che si erge offensiva tra centro urbano con il laboratorio del Massimo e Danisinni e Sperone, poli opposti e lontanissimi che il teatro intende ad accorciare, se non abolire in un abbraccio di danza, di arte nella sua universalità unipolare. Maria e Dario convincono il Maestro di danza Jean-Georges che ha al Teatro Massimo il suo quartier generale con il “corpo di ballo” di topi a liberare Pietro dall’incantesimo della prigionia nel guscio dello Schiaccianoci e dargli la libertà della danza in quel mondo atteso e sperato della società libera da norme e catene e carcere tra l’armonia originaria delle api da cui nasce la vita, nei campi di Aristeo. La concretizzazione della prigione nel parco laterale si scioglie nella liberazione dell’ammanettato nel suo passaggio in sala condotto dai liberatori. Il tutto nel sontuoso cromatismo che occupa l’intera bocca della scena, una vistosa scenografia, dipinta tutta a mano nei laboratori teatrali da Renzo Milan, un po’ pop-art, un po’ rimodulazione dei luoghi cittadini. Parte importante nelle riprese dolciarie i bambini e perciò il loro Coro di voci bianche, diretto da Ido Arad, già qui presente lo scorso anno per il Romeo e Giulietta, loro maestro Salvatore Punturo. Nonostante qualche scarto con la direzione dell’orchestra, lo spettacolo ha ottenuto la sua quantità di meritati applausi, nella presenza instancabile e attiva di Marco Betta che ha arricchito il centro focale con interviste e altre proficue offerte collaterali, soprattutto didattiche rivolte ai ragazzi delle periferie. Si è potuto assistere alla prima del balletto anche in diretta streaming dalla web tv del Teatro Massimo.

 

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