ECHI DI GABRIELLA MAGGIO

Intervento critico di Franca Alaimo

Prima di aprire le pagine del libro di Gabriella, sono rimasta per qualche minuto pensierosa di fronte alla copertina. Sebbene cogliessi immediatamente e con una certa piacevolezza intuitiva la corrispondenza fra il titolo e l’immagine piuttosto estrosa, ugualmente mi chiedevo che cosa realmente significasse quello sguardo fisso ed interlocutorio dell’autrice su una sé stessa evanescente, quasi una proiezione fantasmatica. Chi è, insomma, quell’altra di sé o da sé: la memoria che poco a poco fugge e sbiadisce? La propria più intima e inafferrabile essenza da interrogare? Il sogno? La ritrosia della poesia e il suo silenzio? Tutti questi interrogativi  hanno trovato risposta nella lettura dei testi, dopo la quale ho potuto concludere che l’autrice indaga in tutte queste dimensioni, e lo fa con assoluta sincerità e pulizia di dettato, cercando un approccio comunicativo immediato con il lettore. Tale risultato, però, non è frutto né di improvvisazione, né di approssimazione, ma di una lunga riflessione sui tanti aspetti dell’esistere, pubblici e privati, filtrati spesso attraverso le parole dei poeti più letti ed amati, e, in specie, dei classici, come Dante, Catullo, Lucrezio e altri, dei quali cita alcuni versi come a sottolineare la continuità della parola nel tempo quale strumento di indagine dell’enigma “uomo” ed espressione di una pietas storico-creaturale di fronte ai drammi delle storie private e della Storia, che ripresenta, sia pure con dinamiche diverse, lo stesso nodo conflittuale fra bene e male. E’ interessante leggere, ora che la poesia delle donne sta occupando un posto di rilievo nella produzione letteraria contemporanea, il loro/nostro punto di vista su eventi e problematiche prima affrontati solo dagli uomini, perché di certo in essa si attua, per forza di cose, una rivoluzione totale di rappresentazione. Gabriella Maggio, per esempio,  racconta il mondo con  quella misericordia e tenerezza materna che appartengono alle donne, ma che, come vedremo più avanti, se da una parte corrispondono al suo sentire, dall’altra non coincidono con la resa poetica. Lo stupro, la guerra, il dolore sono rappresentati, dunque, come eventi di una femminilità avvilita, negata, violentata, che la parola denuncia, ma con la convinzione di non bastare, se manca la volontà di un profondo mutamento della mentalità maschilista e dell’organizzazione politico-sociale. La parola di Gabriella spera nell’attuazione di questa ricomposizione tra maschile e femminile con una tenacia che, sotto il profilo delle figure topiche letterarie, si esprime attraverso le antitesi. Tutta la sua poesia cerca la verità nell’instabilità delle forme del reale, un punto fermo nell’urto di elementi contrapposti e una redimimibilità nei bagliori della luce e del bene: così, nei suoi versi  alle tempeste seguono larghe schiarite, alle notti le luminose albe, al disamore un gesto di affetto, allo spargimento dei cocci la volontà “di ricomporli ancora questa volta” e sempre  “Di là dal muro spuntano già i fiori”. La stessa dimensione personale, che sostanzia la maggior parte dei testi, non è altra cosa da questa, ché anzi l’autrice tutto soffre e sopporta come individuo che non si sente scisso dalla comunità umana, dalla coralità della fratellanza o, meglio, della sorellanza, tant’è che anche in essa aleggia il senso filosofico del nulla, un intenso avvertimento di solitudine. Non per caso il tempo che intanto scorre e travolge è definito “epico”, paragonabile a quello errante e irto di difficoltà di Ulisse alla ricerca dell’origine, che per lei si identifica con un “dio austero e benevolo / inizio e fine dell’ansia della vita”. La poetessa, tuttavia, trova nella rete che l’impiglia punti di fuga e consolazioni: sono le  memorie dell’innocenza del tempo infantile, da cui balzano vivissimi, umanissimi, alcuni ritratti, quali quello di nonna Giovannina e del padre, scampato miracolosamente alla guerra; i presepi con la carta stagnola; gli stupori senza perché; oppure, nel tempo presente  “le piccole cose d’ogni giorno”, le risate liberatorie, la saldezza dell’amore coniugale “più forte del diamante”. Lo scenario all’interno del quale si susseguono i vari stati d’animo è perlopiù quello dello spazio urbano palermitano, mai specificato in verità, ma che rivela la sua mediterraneità per due elementi almeno: la pianta della plumeria, presente quasi in ogni balcone della città, e il mare la cui voce ricama un sottofondo di acque e suoni. Ed infine, quale ultima dimensione da eplorare, resta quella della Poesia, ossia l’arcano di sé stessa. Questo, è secondo me, il compito più spinoso per una poetessa come Gabriella Maggio, che preferisce, più che scendere nel suo io più profondo e nascosto, nel suo Es, insomma, osservare lo spazio che le sta intorno, i fatti che si susseguono e registrare le vibrazioni emotive provocate da quelli, e, più che lasciarle fluire liberamente senza volerle razionalizzare o legarle alle regole esatte della lingua, imbrigliarle in un dire molto netto e preciso, quasi geometrico, secondo un codice che viene definito dai linguisti paterno (in contrapposizione a quello materno), prossimo in sostanza alla prosa, tant’è vero che l’autrice ama spesso raccontare, e lo fa magistralmente. I silenzi a cui penosamente la costringe la Poesia sono, di fatto, i momenti di disconnessione dal suo io più profondo. La pena è intensa, e la percezione è quella di un silenzio non fertile di meditazioni e di pensiero, ma di un vuoto doloroso e desolato. Tuttavia tutti i poeti sanno che quest’ultimo fa parte del mestiere, qualunque sia il codice scelto, materno o paterno. Gabriella è consapevole, comunque, di tutto questo e con la lucidità che la contraddistingue, lo ammette apertamente nel momento in cui sceglie per definire le sue poesie un verso tratto dal primo libro del De rerum natura di Lucrezio: Obscura de re tem lucida pango carmina, confermando la sua appartenenza ai poeti filosofi e narratori, che dall’oscuritù della materia traggono la chiarezza espositiva dei propri testi. Perfino la sonorità dei versi preferisce affidarsi più che ad una musica regolare, scandita da metri e/o rime e figure di suono -che pure non mancano- ad un ritmo coinvolto  piuttosto dallo svolgersi del pensiero, con le sue impennate e le sue soste, tant’è che  accanto a versi brevi si affiancano altri molto estesi, coincidenti spesso con la misura della sintassi. Le poesie proposte sono soltanto trentaquattro, ma la varietà dei temi riesce, come scrive Dante Maffia nella prefazione, a fare entrare il lettore “nella magia di un mondo ricco di umanità, teso ai valori autentici del vivere…con una fibrillazione emotiva… che immette nel circuito delle percezioni rare che producono le scintille della poesia”.

 

 

 

 

 

 

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