CONSIDERAZIONI SULLA QUESTIONE MERIDIONALE

Francesco Paolo Rivera *

È  trascorso oltre un secolo e mezzo dalla unificazione dell’Italia. Dal 1860 si studiano i fenomeni, le scelte politiche, e tutto ciò che aveva arrestato lo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia e che viene, da quell’epoca, definita la “Questione meridionale” e che, da quell’epoca, non trova una piena e completa soluzione al problema. Gli storici sono concordi nell’affermare che, nel 1860 con l’unificazione dell’Italia, è stato un grave errore l’avere creato uno Stato unitario nazionale tra il nord e il sud dell’Italia, l’avere unificato le due parti dell’Italia che sotto il profilo culturale, sociale e soprattutto mentale erano molto diverse. Da non dimenticare che le popolazioni del meridione d’Italia, ma soprattutto quelle della Sicilia, si sono sempre distinte da quelle di altre regioni italiane, forse per aver sempre subìto dai primordi, sul proprio territorio, la presenza di altre popolazioni con identità culturali e interessi diversi dalle proprie. Forse sarebbe stato meglio, come auspicato da alcuni uomini politici, creare una nazione federale in grado di rispettare meglio le peculiarità degli altri nelle loro realtà locali. Sicuramente con la unificazione non si realizzò una nuova nazione, semmai si diede luogo alla realizzazione di quello che era il sogno dei Savoia e, inizialmente anche di Cavour, di allargare, fin dove si riusciva (o fin dove le nazioni europee avrebbero permesso che si riuscisse), i confini del vecchio regno sardo-piemontese. Insomma, si potrebbe asserire che con l’unificazione si tentò di realizzare una specie di “debellatio” …  i piemontesi con la disgregazione e l’annessione dello Stato borbonico tentarono la completa “distruzione” del meridione italiano.    Non venne emanata una nuova costituzione, non venne varato un nuovo ordinamento giuridico e amministrativo, le vecchie leggi che vigevano nell’ambito dello Stato Sardo-Piemontese vennero imposte a tutti gli italiani, e lo stesso Re d’Italia continuò a chiamarsi “Vittorio Emanuele secondo” malgrado fosse il “primo Re d’Italia”. In pratica, i Savoia non fecero una vera e propria unificazione, semmai una annessione, armi in pugno, dei territori dei vari regni italiani, i quali subirono passivamente l’evento. Tutti i posti chiave della pubblica amministrazione furono occupati dai “piemontesi” che si insediarono quali “nuovi padroni” ed iniziarono a governare sui “nuovi sudditi”. Tuttavia, subito dopo l’unificazione, iniziarono le sollevazioni popolari, “i nuovi sudditi” non accettarono facilmente le imposizioni dei “nuovi padroni”.  I piemontesi invece di esaminare i motivi di questi eventi e di cercare di risolverli, li trattarono come problemi di ordine pubblico, definendoli “mene borboniche e clericali” e, ciò che è peggio, non si resero conto subito che il malcontento proveniva dal mondo contadino. La renitenza all’obbligo della leva militare (per altro sconosciuta nel preesistente ordinamento borbonico), che costituiva una necessità per il contadino meridionale, che non poteva abbandonare la coltivazione della terra, perché questo comportava la fame per sè e per tutta la sua famiglia, venne subito rubricata come reato e come tale venne perseguita con arresti, deportazioni e fucilazioni. Dal canto loro le popolazioni meridionali erano convinte di essere state solo vittime di uno scambio di “Re”, rimpiangendo il precedente stato di cose. In effetti, i governi borbonici erano stati sicuramente meno rigidi di quelli piemontesi. Questi ultimi, provenendo da un lungo periodo di guerre, avevano necessità di ammortizzare le enormi spese sostenute per le annessioni, la qual cosa si ripercosse negativamente sull’economia contadina meridionale. L’economia del Regno delle Due Sicilie,  prima della venuta di Garibaldi, aveva una bilancia commerciale con un attivo di ben cinque volte superiore a quello piemontese, con l’unificazione,  l’ex regno Borbonico apportò al Regno d’Italia unificato un contributo doppio a quello apportato da tutti gli altri Stati messi insieme, ciò determinò la convinzione che il Sud fosse più ricco di quello che si pensasse e che quindi aveva la possibilità di sopravvivere di sola agricoltura, ciò determinò il trasferimento forzato delle quasi seimila industrie (che impiegavano circa 250mila operai) dal Sud al Nord.  L’errore, sopra accennato, non è da ricercarsi nell’unificazione nazionale, ma nel modo e col fine con i quali questa unificazione venne realizzata e soprattutto il non avere voluto uno Stato federale, con ampie economie locali. Pare che Cavour si fosse pentito di come fossero andate le cose, e si asserisce che, quando era ormai prossimo alla fine, abbia avuto un ripensamento e che abbia raccomandato il federalismo auspicando una Italia suddivisa in tre grandi regioni autonome, convinto che questo era l’unico sistema per far coesistere gruppi etnici differenti, con storie secolari diverse e problemi contrastanti. Ma il Parlamento, al quale venne sottoposta la proposta, non la tenne in alcuna considerazione, ritenendo più valida una struttura rigidamente accentrata, che faceva assurgere, all’interno delle provincie, i prefetti a veri arbitri di tutto. Il popolo, vessato sotto l’aspetto anche religioso e marginalizzato dalla legge elettorale, venne così escluso dalla “cosa pubblica” determinando il distacco tra il paese legale e quello reale, il che costituì il prezzo più alto del modo in cui si era raggiunta l’unificazione. L’economia del Sud venne ulteriormente danneggiata per il lancio del settore industriale del Nord, perchè costretta perfino a chiudere gli sbocchi di mercato utilizzati dall’artigianato meridionale e siciliano.  Il sistema contributivo non proporzionale al reddito, l’abbattimento delle barriere doganali, la tassazione sul macinato e sul sale, contribuirono alla crescita del divario economico tra Nord e Sud: aumentò la povertà fino a livelli di miseria assoluta, aumentarono la diffusione delle malattie e delle epidemie, che furono, anche, la causa che abbassò la media della vita della popolazione. Nel 1878, quando fu Presidente del Consiglio dei Ministri Agostino Depretis (1813-1887), si vararono alcune misure a vantaggio dell’industria nordista (si abbassò il prezzo del grano nell’intento di tenere bassi anche i salari), e nel 1887 furono varate alcune misure protezionistiche per l’agricoltura, ma ormai era troppo tardi, il danno era stato fatto: la più grande migrazione di massa della popolazione meridionale, alla ricerca della sopravvivenza, era iniziata. Purtroppo, la “questione meridionale” esiste ancora, però il divario tra il Nord e il Sud della Penisola viene affrontato, con metodi diversi dei provvedimenti tipici dell’età preindustriale, con misure e metodi tipici della società postindustriale e della globalizzazione.

*Lions Club Milano Galleria distretto 108 Ib-4

 

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