Nello stridio di universi tetri- Risposta a Gabriella Maggio
(Lucia Carollo)
Credo che la poesia sia solo dalla parte delle vittime, cioè dei poeti: esiste solo per loro (dove “per” è sia vantaggio sia causa). La mia poesia è il bruco che rode la mela, la perla dell’ostrica: nasce da una malattia. E questa malattia è l’incapacità di capire e di persuadere chi si ama. Chiunque (o qualunque cosa sia) l’amato, la parola poetica che lo riguarda sublima la mia incapacità di raggiungerlo nel quotidiano, sublima una ‘guerra’ reale, spostandola al livello dell’affabulazione. Eppure, è proprio lì che la parola poetica – mentre rimodella il reale con una fantasia e una precisione del tutto estranea alla parola ordinaria, simile forse soltanto al linguaggio più triviale – svela a chi la usa la sua sconfitta. Chiusa la poesia, il poeta si sente più libero, forse perfino più soddisfatto: come il guerriero che abbia sferrato un colpo di spada, come il chimico che abbia trovato la formula che cercava…la mela si è liberata del suo bruco, che alla fine ha trovato una via d’uscita…
Eppure ad ogni ultimo punto non sono riuscita a sentirmi mai più vicina a ciò o a chi desideravo: il verso mi ha sempre fatto capire perché sbagliavo strada, e non è mai riuscito ad indicarmi quella giusta.
E, malgrado questa evidenza, se la mela si ammala, null’altro si può fare che concedere al verme di roderla: esiste un piacere sottile, irresistibilmente voyeristico narcisistico e liberatorio, nel trovare una metafora o una melodia che colorino la natura o la storia d’ogni giorno di note per me nuove.
Sono stata accusata, ed aspramente, di essere null’altro che un’umanista. Incapace di vivere e di osservare il mondo se non attraverso il filtro della letteratura. È per questo che mi torna spesso il dubbio sull’effettiva utilità di tutte le pagine che ci hanno sorpreso o scandalizzato o commosso. Cosa si può fare quando tutti i libri letti e quelli che continueremo a leggere, quando tutte le poesie già scritte e quelle che nostro malgrado ci visiteranno, non salvano dalla disperazione?
Sul ciglio del marciapiede, nella lotta quotidiana per la sopravvivenza che si consuma nella nostre moderne e opulente città, la cultura a volte non solo non garantisce una banale serenità materiale, ma può evidenziare fino all’insostenibilità le mistificazioni della società.
Ed allora, forse paradossalmente, solo occhi liberi dal filtro dei libri possono consolare certe disperazioni; solo occhi liberi dal filtro dei libri – ignoranti ma più umili – possono comprendere che amare non è mettere radici, restare, possedere: ma lasciar andare, forse anche cacciare via.