LA RIVOLTA DEL SETTE E MEZZO

Francesco Paolo Rivera*

La rivolta del sette e mezzo, anche se la denominazione ricorda un vecchio gioco, fu una sollevazione popolare antigovernativa avvenuta a Palermo tra i 16 e il 22 settembre 1866 che prese quel nome per la sua durata, di sette giorni e mezzo, organizzata appena sei anni dopo la unificazione della Sicilia con il Regno d’Italia, sollevazione popolare che, anche se di notevoli proporzioni, non è mai stata narrata dettagliatamente nei libri di storia. Forse la descrizione più ampia, sia degli avvenimenti che delle cause che li provocarono, fu quella fatta – in un misto, sufficientemente comprensibile, di lingua italiana e siciliana – dal compianto Andrea Camilleri (nella “Biografia del figlio cambiato”): “Una tinta matinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i burgisi, i commercianti all’ingrosso e al minuto i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, sottouffici e ufficiuzzi governativi che dopo l’unità avevano invaso la Sicilia, pejo che le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e malamente da uno spaventoso tirribilio di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto. Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicine a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell’impresa garibaldina, stavano assalendo la città, in un vidiri e svidire, Palermo capitolò, quasi senza resistenza; ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta del “sette e mezzo” che sulle prime parse addirittura indomabile. Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa tutta la notte erano restati in piedi e vigilanti quelli che aspettavano che capitasse quello che doveva capitare. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definirono “repubblicana”, ma che i siciliani con l’ironia con la quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del “sette e mezzo”, chè tanti giorni durò quella sollevazione. E si ricordi che il “sette e mezzo” è magari un gioco di carte ingenuo e bonario accessibile pure ai picciliddri nelle familiari giocatine di Natale. Il Generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell’isola a palla allazzata, scrive ai suoi superiori che la rivolta nasce tra l’altro “dal quasi inaridimento della risorse della ricchezza pubblica”, dove quel “quasi è un pannicello caldo”, tanticchia di vasellina per far meglio penetrare il sostanziale e sottinteso concetto che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma per una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno d’Italia.”La rivolta fu iniziata da tre / quattromila contadini provenienti dalle campagne circostanti Palermo, che divenne subito dopo una manifestazione di malcontento e di protesta popolare di circa 35 / 40 mila uomini in arme, capitanati dagli stessi capisquadra che avevano capitanato l’impresa garibaldina di sei anni prima, alla quale partecipavano spontaneamente tutti gli strati sociali sollecitati dalla disastrosa situazione economica. Il popolo siciliano era al culmine della disperazione: la legge del 7 luglio 1866 sulla soppressione delle corporazioni religiose, (che aveva soppresso persino il “festino”), privò delle fonti di sussistenza e di assistenza i tanti poveri che campavano con gli aiuti dei religiosi e che gettò sul lastrico coloro che vivevano all’ombra delle case religiose. La crisi frumentaria della primavera del 1866 provocò le rivolte popolari a Lercara Friddi, Racalmuto, Pantelleria, Adernò (l’attuale Adrano), e in altri Comuni. Nella rivolta insorsero e parteciparono contemporaneamente sia la estrema destra, nobili e clero, il cui obbiettivo era quello della restaurazione borbonica e clericale, che la estrema sinistra che mirava alla costituzione di uno stato repubblicano sul modello mazziniano (1). La giunta rivoluzionaria aveva quale presidente il principe borbonico Bonanno di Linguaglossa, e quale segretario il mazziniano Francesco Bonafede Oddo (2). Alle 5 del mattino del 16 settembre 1866, tre carabinieri “piemontesi” furono uccisi a fucilate. I “piemontesi” presi di sorpresa, si rifugiavano entro il palazzo reale, entro il Comune, entro l’arcivescovado. La massa dei rivoltosi, in cerca di un tozzo di pane, con gli stendardi di Santa Rosalia e del Sacro Cuore di Gesù, sfidavano i nuovi governanti imposti da Francesco Crispi e dal governo di Bettino Ricasoli. Il Sindaco Antonio Starrabba di Rudinì si difese a fucilate per scappare dal palazzo comunale e rifugiarsi entro il Palazzo Reale. Una colonna di bersaglieri accorsi per difendere il Palazzo Reale, lasciò sul terreno circa 300 morti e moltissimi feriti, altri militari che tentarono di affrontare i rivoltosi furono massacrati in via Maqueda. Una nave militare giunta da Messina sbarcò un battaglione di granatieri … molti dei quali finirono impiccati, ad opera dei rivoltosi, ai lampioni cittadini. La città fu duramente bombardata dal mare dalle navi della flotta del Regno d’Italia, tra le quali erano la “Washington”, la “Città di Napoli”, la “Principe Oddone” … (3).Fu occupato il Tribunale e il palazzo del Comune, al grido di “Viva Palermo e Santa Rosalia”, … il  popolo rivoleva il governo borbonico e il ripristino del “Regno delle Due Sicilie”; tutti gridavano “abbasso i Savoia”, “viva Francischiello” …; per sette giorni e mezzo i rivoltosi restarono padroni della situazione, fintanto che non giunsero 40mila soldati sabaudi al comando del generale Raffaele Cadorna (4), “regio commissario con poteri straordinari” che bombardarono la città, ripresero in mano il potere e diedero inizio a una feroce repressione. Il “regio commissario” si scatenò contro la popolazione stremata, e, particolarmente contro il clero, accusato di avere fomentato la rivolta; furono espropriati i conventi e i monasteri, soppresse le confraternite religiose in tutta l’isola, incarcerati i sacerdoti e i frati, che non erano riusciti a scappare; soltanto gli ecclesiastici di Trapani e di Catania non vennero toccati, perché i prefetti di quelle Provincie reagirono a tali violenze, solo Palermo venne trattata da “città nemica”. Si sparava a vista contro chiunque fosse in atteggiamento di sospetto, e prima della fucilazione si faceva scavare la fossa al morituro, e “per evitare il disturbo del trasporto dei cadaveri” si eseguivano le fucilazioni “collettive” direttamente entro i cimiteri cittadini (S.Orsola, i Rotoli e dei Cappuccini). Molti furono deportati in catene a Ustica. Quando fu soddisfatta la sete di vendetta, il governo italiano decretò una grande amnistia per tutti coloro che erano stati direttamente o indirettamente implicati nella rivolta … pare che ne abbiano beneficiato solo tre persone … tutti gli altri erano già “passati a miglior vita!” Quante furono le vittime di questa rivolta?  Non si sa nulla di preciso, certamente diverse migliaia i morti da parte “siciliana”; le cifre ufficiali non furono mai evidenziate … sicuramente il nuovo Stato, il Regno d’Italia, se ne vergognava. Da parte “piemontese”, invece, secondo un calcolo pubblicato il 3 ottobre 1866 sul giornale “L’Amico del Popolo” di Belluno (?), ci sarebbero stati un migliaio di morti, tra cui 40 ufficiali e 30 carabinieri. Il numero dei feriti rimase imprecisato perché, essendo intervenuta una epidemia di colera, morirono circa 65mila palermitani la maggior parte dei quali feriti a seguito della rivolta. Come mai la città di Palermo, una delle più importanti del bacino del Mediterraneo, che aveva favorito la invasione di Garibaldi e l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia, dopo sei anni aveva deciso di ribellarsi?  Fu, forse l’espressione di un malessere diffuso, fu sicuramente la protesta contro un sistema di vita estraneo alle abitudini e alle tradizioni siciliane, fu il rifiuto della forzata unificazione nazionale, la volontà di non sottomettersi a leggi inique (la leva obbligatoria, la tassa sul macinato …) e all’autorità dei nuovi padroni, i piemontesi “senza Dio”! La reazione e le rappresaglie non si fecero attendere: mentre pare che i rivoltosi non si abbandonassero a ruberie, saccheggi o vendette personali, diverso fu il comportamento delle truppe regie. Secondo il Console di Francia (di quell’epoca) a Palermo “i numerosi soldati e ufficiali che sono stati fatti prigionieri non sono stati fatti oggetto di alcun cattivo trattamento … Questa condotta non è certo quella dei briganti, ma di veri rivoluzionari che si rifanno a un ideale, a uno scopo politico e a una giusta causa.”. Con il ritorno alla legalità, quando li gen. Cadorna aveva revocato lo stato di assedio, tra il 12 e il 15 gennaio 1867, due gruppi di detenuti, senza alcun processo o sentenza vennero fucilati durante la loro tradizione a Palermo e lo stesso avvenne per altri cinque prigionieri provenienti da Misilmeri. Secondo alcuni autori, ad appena dieci anni dall’unificazione, si contarono nei territori meridionali e nella Sicilia oltre un milione di morti tra civili e militari, circa mezzo milione di prigionieri mandati a morire nei campi di concentramento del nord, e 54 furono i paesi rasi al suolo. Quella del “Sette e mezzo” fu sicuramente una rivolta gloriosa, ma puntualmente ignorata e dimenticata dalla storia.

*) Lions Club Milano Galleria distretto 108 Ib-4

Note:

1)Mazzini, a conoscenza dei programmi della sinistra aveva scritto nel 1865 “… un moto repubblicano che conduce a far pericolare l’unità nazionale sarebbe colpevole, un moto che restasse isolato, cadrebbe poco dopo l’autonomismo nello smembramento, nella concessione a governi e reggitori stranieri …”;

2) denominato “Francesco Ingadolce” (nato a Gratteri nel 1819 ove è deceduto nel 1905) aveva partecipato alla rivoluzione del 1848;

3)la flotta era comandata dall’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, cioè quello che nel luglio 1866 (due mesi prima del cannoneggiamento della città di Palermo) aveva subìto una sonora sconfitta nella battaglia di Lissa (due navi corazzate affondate, 620 morti e 151 feriti) dalla flotta austro-ungarica, comandata dal contrammiraglio Wilhelm von Tegetthoff, che cercava di recuperare a terra l’onore che aveva perduto a mare. Non è questo il sito ove criticare lo svolgimento di tale battaglia navale, vale la pena però evidenziare che la battaglia di Lissa fu la prima grande battaglia navale della storia tra navi corazzate a vapore e l’ultima nella quale vennero eseguite manovre di speronamento; che la marineria della “Osterreichische Kriegsmarine”, secondo lo storico americano Lawrence Sondhaus dell’Università di Indianapolis, era costituita per larga maggioranza da italiani (triestini, istriani, fiumani e dalmati) soprattutto veneziani, solo una piccola percentuale erano austriaci e croati;

5)Raffaele Alessandro Cadorna (1815-1897) fu il padre del generale Luigi Cadorna (1850-1928) Capo di Stato Maggiore dell’Esercito durante la prima guerra mondiale, responsabile della disfatta di Caporetto, e nonno del generale Raffaele Cadorna (1889-1973) Comandante del Corpo Volontari della Libertà nella Resistenza.

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