Che importa indagare se Orizia fu rapita!

(Carmelo Fucarino)

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Heinrich Lossow, disegno per le Metamorfosi di Ovidio

In piena estate in un mezzogiorno di canicola, come sa esserlo in Sicilia e pure ad Atene, Fedro si avvia per una passeggiata fuori le mura, è stato per molto tempo seduto fin dal primo mattino. Acumeno, medico saggio e suo caro amico, colloquiante nel Simposio, gli ha consigliato di fare passeggiate all’aperto. Secondo lui, sono più rilassanti di quelle lungo i viali del passeggio ateniese. Incontra Socrate che, appreso del discorso che Lisia aveva tenuto sull’amore e bramoso di conoscerlo, si dichiara disposto a seguirlo ovunque, fino a Megara e ritorno. Girano verso il sud della città e si trovano lungo le rive del ruscello Ilisso. Anche Fedro, per caso si trova a piedi nudi, ed è assai facile e piacevole, data l’ora e la stagione, camminare con i piedi nell’acqua e bagnarsi. Giungono ai piedi del frondoso e alto ed ombroso platano, il più celebre agnocasto dell’universo e di tutti i tempi.

È all’acme della fioritura, quando rende ben profumato tutto il luogo. Ai suoi piedi scorre una sorgente di acqua fresca, come si sente immergendovi il piede. Somiglia ad un luogo sacro dalle immagini e dalle statue delle ninfe e di Archeloo. Un dolce alito di vento, il mormorio estivo in sintonia con il coro delle cicale, il declivio di erba fresca che invita a sdraiarsi. Qui Socrate lo segue in modo strano, come uno che non è mai uscito dalla città, come un forestiero condotto da una guida: «Perdonami, carissimo, sono avido di conoscenza. I campi e gli alberi non vogliono insegnarmi niente, gli uomini della città invece sì». La cornice di questo tranquillo conversare a due in ansiosa attesa di altri sublimi colloqui è un luogo immortale dell’anima, inimitabile nonostante i tentativi. Piccola cosa, nella solitudine suicida dell’Es Foscolo il suo platano, lettera 23 ottobre: « Io seggo con essi a mezzodì sotto il platano della chiesa leggendo loro le vite di Licurgo e di Timoleone. Domenica mi s’erano affollati intorno tutti i contadini, che, quantunque non comprendessero affatto, stavano ascoltandomi a bocca aperta. Credo che il desiderio di sapere e ridire la storia de’ tempi andati sia figlio del nostro amor proprio che vorrebbe illudersi e prolungare la vita unendoci agli uomini ed alle cose che non sono più, e facendole, sto per dire, di nostra proprietà. Ama la immaginazione di spaziare fra i secoli e di possedere un altro universo» (il piantùn di Verzago si è sdraiato il luglio del 2008 a 400 anni di vita). In margine ad una passeggiata ristoratrice, in questa struttura di incanto (la ignorava forse Croce, quando discettava di poesia e non poesia), il topos eccezionale per un mito che tutti li rappresenta e commenta. In quel punto a sud di Atene alla confluenza dell’Ilisso con il Cefiso, due o tre stadi più avanti ove si attraversa il fiume per recarsi al tempio di Agra, dedicato a Demetra si dice o a Artemide Agretera, proprio in quel punto c’era l’altare di Borea, il vento del Nord. Con la massima naturalezza la domanda incredibile di Fedro: «Sei persuaso, o Socrate, che questo mitologema sia vero?». Per i tanti cultori di miti, antichi e moderni, veri o falsi (Marino Niola li definisce meglio “mitoidi”), la risposta del sapiente «a piedi nudi»: «Ma se io non ci credessi, come i sophoi, non sarei uno strambo. Poi da sophos, potrei dire che il soffio di Borea gettò Orizia giù dalle rupi lì vicino, mentre giocava con Farmacea, e così, dal momento che era morta, si disse del rapimento da parte di Borea. O dall’Areopago, perché si dice anche questo mito, che fu rapita di là e non di qua». Queste interpretazioni sono ingegnose e proprie di un uomo esperto e impegnato, ma non troppo fortunato, perché dovrebbe in questo modo raddrizzare la forma (eidos) di tutti gli altri miti, come per esempio Chimera, Gorgoni e Pegasi, tutti gli esseri straordinari e le nature mostruose. Se uno non ci crede, dovrebbe avere molto tempo libero per raccordare queste cose incredibili al verosimile, «servendosi di tale sapienza da campagnolo»: «per queste cose non ho in alcun modo tempo libero (scholé, poi scuola), per la ragione che non posso ancora conoscere me stesso secondo l’iscrizione di Delfi e mi sembra risibile, non conoscendo ancora questo, indagare cose che mi sono estranee». Perciò prestando fede alle credenze che si hanno al riguardo, «vado esaminando non queste cose, ma me stesso, nel caso che non sia una belva più intricata e assai piena di brame di Tifone o invece un essere vivente più mansueto e più semplice, partecipe per natura di una moira (la sorte divisa e assegnata in parti) divina e priva di vanità». Così credeva per fede il saggio “a piedi scalzi”, – così tutti lo conoscevano, anche Aristofane (Nuv. 103, 363). Solo nel divino simposio in casa di Agatone, ove si intesseva a più voci l’encomio di Eros, si era vestito elegante, «lavato e calzato di saldali, cosa che faceva poche volte», «per andare bello presso un bello (Simp. 174 a,). Così credeva l’affabulatore votato alla cicuta. Perché solo la fede ci salverà. Se tornasse l’uomo a indagare dentro se stesso, da solo, con ragione e sentimento, senza bisogno di “strizzacervelli”, in quell’abisso impenetrabile che ci fa essere scintilla di divino e fiera selvaggia che sconosce pietà e rispetto del “prossimo”. Così secondo l’iscrizione di Delfi: Γνώθι σεαυτόν.

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