LA VICARÌA

(Francesco Paolo Rivera *)

Non si deve pensare che nella Palermo del XVIII secolo ci fosse “carenza” di luoghi di pena, ce ne erano per tutti i ceti, per tutti i sessi, per tutte le giurisdizioni.  A parte le Carceri del Sant’Ufficio (1), le carceri ecclesiastiche (sotto il palazzo Arcivescovile), quelle senatoriali (nel Palazzo Pretorio, le “carboniere”), quelle di Santa Caterina (in piazza Bellini), quelle di fuori Porta Carini e quelle femminili della Vetriera (dame dell’aristocrazia, condannate per qualche reato, venivano recluse per scontare la pena, in conventi ecclesiastici), quelle del Castello (2) riservate ai nobili e a chi … poteva spendere. Il carcere per eccellenza della Città di Palermo, il più famoso, era “la Vicarìa”. Quale sia la provenienza o la derivazione di tale denominazione … non è stato possibile accertarlo. Da una ricerca sul “nuovo dizionario siciliano italiano” di Vincenzo Mortillaro (edito da Arnoldo Forni nel 1881) alla denominazione “Vicarìa” corrisponde “Sost. femm. – luogo ove si tengono serrati i rei (carcere)”; per conseguenza  si è portati a pensare che le carceri, in “lingua siciliana” erano (e sono, tutt’oggi) denominate “Vicarìa”. L’immenso edificio, posto (in corso Vitt. Emanuele n. 85) in un sito molto centrale della Palermo settecentesca, tra il Cassaro e piazza Marina, venne eretto, come fondaco della Dogana nel 1578, poi destinato a sede dei Tribunali fino al 1593, (sotto tre Vicerè: Marcantonio Colonna, Diego Enriquez de Guzman conte di Alba de Liste (3) e Arrigo de Gusman) e, quindi, trasformato in carceri, a spese del Senato, e tale rimase, fino al 1849 quando venne adibito a Palazzo delle Finanze (4). E passando a trattare del regime carcerario della Vicaria, occorre ricordare che scopo della pena – che, oggi, è quello della riabilitazione e rieducazione del detenuto, al fine di dargli la possibilità, scontata la pena, di reinserirsi nel consesso civile, – all’epoca della narrazione, era soprattutto quello di infliggere al condannato la sofferenza fisica.  In questo carcere venivano reclusi delinquenti di tutti i tipi (assassini, ladri, falsari, violentatori).  Intorno all’edificio, le finestre protette da spranghe di ferro venivano martellate incessantemente dalle guardie dal tramonto all’alba del giorno successivo (questo incessante rumore, toglievano la pace degli abitanti della zona). Nel cortile all’ingresso della struttura, oltre all’alloggio del boia, pare che vi fossero accatastati gli strumenti di tortura, tre forche, scale e gli steccati per gli atti di giustizia, ed esternamente ai due lati del fabbricato pare che ci fossero due fontane. Il 19 settembre 1773, a seguito di moti popolari (5), una turba di gente, introdottasi nell’edificio, distrusse praticamente tutto, compresa una pila di pietra (ove si suppliziavano i detenuti) che, per la sua funzione, aveva dato origine ad una brutta imprecazione “chi putissi vidiri la pila!” (che possa andare in galera!). La pubblica amministrazione, per il mantenimento di un recluso, versava la somma di 4 grana al giorno, poi aumentata dal Re di altre 240 onze all’anno, e infine portata a sei grana. Il prigioniero che entrava alla Vicaria era tenuto a pagare, di tasca sua, “i diritti dei carcerati” pari a due tarì e quattro grana quale compenso per il Castellano (il dirigente del carcere) e delle guardie … se, per ipotesi, non era in grado di pagare, perché non possedeva soldi, veniva depredato di quei pochi capi di vestiario che aveva addosso, rimanendo completamente nudo anche durante l’inverno.  Il “Rancio” era appena sufficiente alla sopravvivenza. La spesa per il vitto era a carico delle casse regie, tuttavia la maggior parte del denaro che serviva per l’acquisto del cibo per gli “ospiti” della Vicarìa finiva nelle tasche del Castellano e dei suoi aiutanti. Venivano cucinati normalmente soltanto legumi … la carne la si vedeva raramente, in occasione delle grandi festività o della visita di qualche Autorità assieme alla sua Corte, e comunque per non più di un oncia a testa, di pessima qualità e malamente cucinata.  I legumi venivano distribuiti con i “cuppini” (6), che erano di dimensioni diverse per ogni tipo di minestra, ma venivano adoperati dagli addetti alla distribuzione secondo la loro convenienza. Per distribuire le fave si utilizzava il “cuppino” dei fagioli, che essendo più piccolo, conteneva meno fave, per distribuire i fagioli veniva usato il “cuppino” per le lenticchie che conteneva meno fagioli … insomma ogni sistema era studiato per sottrarre ai poveri carcerati quel poco che era loro dovuto …! Oltre ai diritti di cui sopra, i detenuti erano tenuti a corrispondere nove grana per l’olio della lampada accesa all’interno del camerone ove “soggiornavano” assieme a un gran numero di altri detenuti. La promiscuità generava spesso violenze, ma soprattutto generava, a causa delle condizioni igienico-sanitarie e ambientali (caldo soffocante in estate e freddo intenso d’inverno), malattie ed epidemie (tubercolosi, scabbia, lebbra, rogna, febbri, polmoniti). La struttura era priva di ospedale e i carcerati, per essere curati, venivano portati all’Ospedale Grande in “sedia volante” scortati dalle guardie. Finalmente, verso il 1790, si istituì una infermeria interna al carcere affidata prima alle cure del dr. Giuseppe Catanese e poi a quelle del dr. Francesco Berna (che pare fosse, nel campo della medicina, una celebrità).  Se non fosse stato per l’intervento dei “procuratori dei carcerati poveri” (don Stefano Tortorici, prima, e don  Antonino Igheras, poi) e per l’opera della “nobile deputazione della Vicaria”, che, con grande carità, si occupavano di quei poveracci, ne amministravano l’assegno, si adoperavano a chiedere e a ottenere aumenti, che, poi,  convertivano in pane che distribuivano ogni mattina pietosamente, i reclusi poveri sarebbero sicuramente morti di fame. Spesso i reclusi venivano dimenticati dagli amministratori della giustizia, e restavano a languire nelle carceri per lunghissimi periodi … tanto, anche se dimenticati, il Castellano e i suoi aiutanti ricevevano egualmente dalla amministrazione reggia il compenso loro dovuto per la detenzione …! Verso la fine del settecento l’equipaggio di una nave francese venne arrestato e imprigionato – non si sa bene in conseguenza di quali “discolerie” – e fu dimenticato da tutti. In attesa che venisse liberato dall’autorità consolare, soggiornò a lungo, perché privo di mezzi economici, ospite della Vicaria, in uno stanzone che fu denominato “stanza dei francesi”. Da quel momento, “i francesi” divennero sinonimo di “squattrinati”. In qualche cronaca, questo avvenimento venne, erroneamente attribuito agli episodi succeduti all’epoca del  Vespro siciliano.   Il Vicerè Caracciolo, impietosito da tale trattamento, il 25 aprile 1785 emanò un bando che recava provvedimenti a favore dei reclusi, bando che, per oltre dieci anni, non ebbe alcuna attuazione. Ogni anno in occasione del Natale e della Festa dell’Assunta si graziavano alcuni reclusi e altri ricevevano la riduzione della pena (7). I carcerati erano tenuti in celle sotterranee strettissime o in fosse ricavate sul pavimento, buie, prive di aria, muffite, nell’umidità e restavano lì a languire fino al processo (che spesso non arrivava mai) o fino alla scadenza della pena. Per rompere la monotonia, i reclusi ingannavano il tempo giocando con una moneta e un insetto (una mosca o un pediculus capitis) (8). Tralasciando poi tutte quelle notizie che riguardano i feroci sistemi per ottenere la confessione di crimini, si ritiene opportuno fare riferimento alle varie ordinanze che, verso la fine del secolo, riguardavano i carcerati e i sospettati, ordinanze che, a differenza di quelle emanate in passato, cominciarono a interpretare le norme penitenziarie in maniera meno dura e più umana per i reclusi. Si separarono le donne dagli uomini, i giovanetti dagli adulti, le male femmine vennero inviate al carcere della Vetriera, i minorenni trasferiti alle carceri della Quinta Casa al Molo. I detenuti maschi iniziarono ad occupare il tempo fabbricando ceste e funi, e le femmine a filare. Finalmente il 12 agosto 1794 il Vicerè Caramanico, decise la adozione di provvedimenti più umani. Vietò l’uso dei ceppi … “semmai per caso le gambe del reo diano inizio di piaghe” … e consentì di “mandare in carcere a casa sua, previa guarentigia, il reo gravemente infermo” (… arresti domiciliari … per gli ammalati che erano in grado di prestare garanzie …). Si trascrivono i testi di altre regie ordinanze, che testimoniano una certa predisposizione del Governo ad adottare trattamenti più umani nei confronti dei poveri reclusi, … ma che fanno intuire al lettore quale trattamento era loro riservato in precedenza:

*** “Li testimoni che, carcerati o ristretti nei dammusi (9), non depongono o che depongono quanto dissero nel primo esame avanti al Giudice, non devono pagare spesa alcuna di carcere né diritto alcuno alla Corte e subalterni sotto qualsiasi pretesto, salvochè tarì uno al carceriero se sia stato in dammuso, per il servizio prestatogli.”

*** “Al reo o testimonio ristretto nei dammusi non si possa negare il pane in grana sei al giorno, allorchè se gli somministra dal Barone o dall’Università, non possano l’uno e l’altra essere obbligati che a grana quattro al giorno, come si prescrive nelle circolari; eccetto il caso di una insolita penuria, per cui il pane fosse meno once sei per ogni quattro grani, poiché allora il Barone o l’Università gliene deve contribuire grana sei al giorno”.

*** “L’acqua deve somministrarsi senza limitazione …”.

*** “Deve il dammuso essere provveduto del vaso necessario alle corporali necessità …”  (ovvia domanda: e, prima, come facevano?)

*** con riferimento alle manette, ai ceppi e alle catene: “Si possono apporre ai rei al più due paia di ferri alle gambe, che non devono essere più di rotoli dodici di peso per ognuno di essi” … (pari a Kg. 19,200 complessivi)  …

*** “Si proibisce, però, generalmente che i ristretti in dammuso, o rei testimoni renitenti che siano, per qualunque delitto si spogliassero delle vestimenta, ed ignudi o in camicia si obbligassero stare in dammuso, dovendo essi restare vestiti secondo la stagione che corre, e deve altresì permettersi a’ medesimi una covertura ne’ tempi d’inverno.”

Grande divertimento per il popolo era la traduzione  nelle carceri palermitane di banditi, evasi, ricercati. Nel contado, ove non vi era permanenza di forze armate o di personale che assicurasse la sicurezza delle persone e dei beni; questa attività, in genere, veniva svolta dalle così dette “compagnie”, cioè guardie agricole private (campieri) al servizio di famiglie di feudatari, di latifondisti (famose le compagnie del P.pe di Butera, di Randazzo, del duca di Terranova, di Monreale) che, nel mentre curavano la sicurezza personale e delle proprietà dei loro padroni, svolgevano anche funzioni pubbliche “di polizia”.

Se qualche “compagnia” catturava un bandito, lo accompagnava.  sotto scorta,  alla Capitale, legato (sulla groppa di un somaro) col capo inghirlandato di erba, fiori e oleandri, con un cerchio sottile intorno al collo (di quelli che cinge il crivello (garbula), al suono di trombe e con spari di archibugi, con un cartello attaccato addosso in cui era scritto il nome dell’arrestato e il motivo del suo arresto, e consegnato, tra il giubilo dei presenti, alla giustizia.

Se, per caso, il bandito, nello scontro, rimaneva ucciso, la festa si faceva egualmente, solo che la testa del prigioniero veniva offerta, alla curiosità del popolo, infissa su un asta. …..

* Lions Club Milano Galleria – distretto 108 Ib-4 – matr. 434120

…..

(1) ubicati nel  “Palazzo Steri” in piazza Marina, più correttamente denominato “Palazzo Chiaramonte” dal nome di Manfredi Chiaramonte che lo fece edificare nel 1367, del quale si è ampiamente trattato in altro articolo (il Tribunale dell’Inquisizione) prigione dalla quale difficilmente si usciva vivi;

(2) ubicate all’interno del Castello a Mare (a nord-est dell’antico porto della Cala) fortificazione edificata intorno al X° secolo a difesa del porto e della città e più volte ristrutturata (nel 1496, nel 1517) e distrutta, il 19 agosto 1593, a seguito di una esplosione (nella quale perse la vita anche il poeta Antonio Veneziano), che nel 1922 fu smantellata per consentire la costruzione dell’attuale porto e quindi semidistrutta – restano ancora dei ruderi – dai bombardamenti aerei dell’ultimo conflitto mondiale;

(3) e, a proposito di quest’ultimo Vicerè vale la pena accennare al “Miracolo della Porta di Piedigrotta”.  Il 30 maggio 1564 alcuni ragazzi scoprirono, alla Cala, entro una grotta, una immagine di Maria Addolorata con il Cristo deposto, dipinta su una lastra di ardesia, che trasudava sudore dalla fronte e lacrime dagli occhi: … miracolo! Sulla grotta si costruì la Chiesa di S.Maria di Piedigrotta e sul luogo venne aperta nel 1585 la Porta di Piedigrotta. Il 15 dicembre 1590 il Vicerè, conte di Albadelista, proveniente da Messina, sbarcò alla Cala, accompagnato dalla sua corte, da un bastimento, ma il pontile in legno che univa la nave alla banchina limitrofa alla Porta, per il peso, crollò e nel disastro morirono 208 persone (150, tra bambini e popolani e 105 nobili) e tra coloro che si salvarono dall’acqua miracolosamente vi era anche l’Arcivescovo di Palermo Diego Aedo. In ringraziamento per lo scampato pericolo il Vicerè fece dipingere dal pittore palermitano Giuseppe Alvino – detto il “Sozzo” – un quadro a olio raffigurante la Madonna che calpesta il serpente, con angeli intorno, e la scena del crollo del Ponte di Piedigrotta (demolito, poi, nel 1800), dipinto che unitamente alla Chiesa fu distrutto sotto il bombardamento alleato del 22 marzo 1943;

(4) Palazzo recentemente abbandonato in condizioni disastrose alla mercè di chiunque, dal quale è stata anche asportata la statua della Vittoria alata, opera di Antonio Ugo (insigne scultore palermitano, autore tra l’altro del busto di G.Verdi nei giardini del Teatro Massimo e della statua della Libertà, in collaborazione con l’arch. Ernesto Basile), statua, poi, fortunatamente ritrovata priva, però, dei fregi decorativi;

(5) Questa tivolta popolare fu provocata dal primo tentativo di riforma agraria. In conseguenza della soppressione dell’Ordine dei Gesuiti (i quali in Sicilia avevano un patrimonio fondiario di circa 34mila ettari di terre coltivabili) si cercò di attivare una nuova politica sociale di riforma agraria, mediante la distribuzione delle terre ai contadini: alcuni lotti vennero messi all’asta, altri  vennero riservati per i piccoli agricoltori, il resto venne assegnato a circa tremila contadini scelti tra i più poveri. Ma tale progetto di riforma non diede i frutti sperati, infatti, da un lato l’Amministrazione osteggiò il progetto di riforma, dall’altro lato lo Stato non fornì ai contadini poveri il necessario sostegno finanziario per la conduzione e la lavorazione dei campi. I terreni attribuiti ai contadini più poveri erano quelli incolti, privi di alberi e di case, ciò avvantaggiò il “baronaggio” il quale potè acquistare i terreni più ricchi. Nel 1773 – sei anni dopo l’espulsione dei gesuiti – il governo provvide ad apportare delle modifiche alle norme in precedenza emanate, che costituirono la più consistente operazione di riforma e di colonizzazione del latifondo meridionale, la prima attuata nell’Italia meridionale. La reazione al processo riformatore fu immediata. In conseguenza del decesso del Presidente del Senato, Cesare Caetani p.pe del Cassaro (secondo il popolo, ucciso sotto i ferri del chirurgo del Vicerè) i rivoltosi, aizzati dai Baroni, che volevano che la riforma avvenisse con il loro beneplacito, assaltarono, prima la Vicaria e dopo il Palazzo Reale, senza che l’esercito riuscisse ad arginare la reazione popolare. il Vicerè  Giovanni Fogliani fuggì a Messina, la rivolta dilagò oltre che in Città anche in molti dei centri della Provincia. Nel tentativo di calmare gli animi, l’Arcivescovo di Palermo, Serafino Filangeri, assunse prima la carica di capo di un governo provvisorio e subito dopo fu nominato dal Re, Presidente del Regno, fintanto chè il 24 ottobre 1774  giunse a Palermo il nuovo Vicerè, Marcantonio Colonna, il quale ristabilì l’ordine pubblico.

(6) altrimenti detti “ramajuoli”, che erano strumenti di cucina in genere in ferro stagnato, o in rame, fatti a guisa di mezza palla vuota, con manico stretto e sottile, simili a dei grandi cucchiai.

(7) Dal giornale quotidiano del 13 agosto 1794: “Il P.pe di Trabia Cap. Giustiziere si condusse in gran pompa con l’intera sua corte alle pubbliche carceri, ove, come è il costume, fece la visita per liberare alcuni di quei delinquenti in occasione della Festa dell’Assunzione di M.V. Furono 26 quei che goderono di tal grazia, perlochè erogò egli la somma di onze 23 oltre di aver regalato agli uffiziali di essa Corte.”

(8) Così il Villabianca descrive questo “passatempo”: “i carcerati son quasi ignudi, prendono una moneta e vi fanno volare le mosche della camera. Vince quello sulla cui moneta viene a posarsi la mosca o l’insetto … detto perciò “joucu du pidocchiu, o di la musca, o di carcerati …”;

(9) da non confondere con le storiche case di Pantelleria e di Lampedusa. Secondo il Vocabolario del Mortillaro, erano definiti “dammusi (segrete) le prigioni nelle quali i ministri della giustizia non concedevano che si favelli, ai rei che vi sono ritenuti”.

 

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