ABBANDONO DELLE TERRE

(Francesco Paolo Rivera *)

J.Honoré  Fragonard , L’ispirazione

La conquista normanna diede origine  in Sicilia a  una monarchia basata sulla feudalità. Il feudo fu la base dell’economia dell’isola e i feudatari costituirono una casta a sé con diritti particolari. Purtroppo con l’andar dei secoli, i baroni presero una abitudine non certo felice, né per loro stessi, né per coloro che erano addetti alla coltivazione dei campi, né per l’economia dell’isola, abitudine che divenne sistema, l’assenteismo. I feudatari, i baroni, i proprietari di terre abbandonavano i feudi. Quali i motivi ? Era molto più comodo abitare gli splendidi palazzi che possedevano in città, ove la vita era sicuramente più vivibile, meno pesante e più comoda (1). La distanza dalla città delle tenute e delle terre di loro proprietà, la mancanza di strade, il difetto di sicurezza, i contadini che avevano difficoltà a pagare, annate cattive per piogge torrenziali o per siccità prolungata, zone malsane spingevano i proprietari terrieri a darli in amministrazione ai propri affittuari, e avere quindi a che fare con una sola persona che pagava la gabella e a non preoccuparsi di altro. Questo abbandono si ripercuoteva sulla coltivazione delle terre: in un paese agricolo come la Sicilia sarebbe stato auspicabile che le campagne fossero più popolate delle città, e coloro che avrebbero dovuto lavorare la terra da contadini invece abbandonavano la campagna, aumentando il numero dei domestici e, spesso,  aumentando la popolazione dei vagabondi e dei miserabili, nelle città. Questa situazione, ovviamente, portava all’impoverimento della nazione! Purtroppo le abitazione dei contadini, i villaggi e quei piccoli aggregati di famiglie di agricoltori erano molto lontani dai feudi, i lavoratori agricoli erano costretti a perdere parecchie ore di tempo per i trasferimenti dalle abitazioni alle terre e viceversa, e tali trasferimenti stancavano fisicamente i coltivatori (2). Sarebbe stato necessario diminuire drasticamente tali perdite di tempo: la cessione in affitto della terra ai coltivatori non risolveva il problema, il grosso problema era quello di assoluta mancanza di strade e dei mezzi di trasporto. Le strade non esistevano, ma non solo le strade carrozzabili (3) ma anche gli angusti viottoli di campagna erano spesso impraticabili sia perché era difficile l’attraversamento in zone montuose, sia per la materiale difficoltà di marcia a causa delle pioggie, della neve, sia perché spesso se due bestie da soma (con le quali si praticava il trasferimento delle merci e delle derrate) si incontravano in senso di marcia opposto mancava materialmente lo spazio per passare. Spesso per raggiungere una destinazione si era costretti, per i motivi illustrati, a scegliere percorsi alternativi che allungava il viaggio anche in ragione di più ore. Naturalmente, tutto ciò aumentava i costi dei prodotti agricoli. Il contadino che diventava affittuario della terra, in pratica pagando un canone al padrone ne disponeva come meglio credeva, tuttavia questo sistema che sarebbe dovuto essere utile a moltiplicare i coloni e a migliorare il suolo non aiutava a raggiungere lo scopo, perché la mancanza  delle strade rendeva inagevole la circolazione delle derrate, che venendo effettuato a dorso di mulo, comportava difficoltà, lentezza e spesa. Le derrate alimentari prodotte in un distretto dovevano consumarsi entro l’ambito di quello stesso territorio, perché le distanze tra un distretto e un altro, comportavano difficoltà di trasporto e quindi aumento delle spese e contemporaneamente, data la difficoltà di conservazione delle derrate, spesso la merce da un distretto a un altro arrivava ormai deteriorata. Le spese sarebbero state minori se i trasporti, invece che effettuati a dorso di muli per via della mancanza di strade, si sarebbero potuti fare con carri, sui quali si sarebbe potuto caricare maggior quantità di merce, le derrate  avrebbero potuto essere trasportate entro contenitori (che avrebbe impedito la manomissione e il deterioramento della merce). Altro problema era quello della coltivazione della terra, la mancanza di animali da lavoro, particolarmente di buoi, impediva l’uso dell’aratro, si continuava a lavorare con la zappa: le campagne erano prive di bestiame e quei pochi feudatari che ancora coltivavano in proprio i propri fondi tenevano per proprio conto gli animali che spesso allevavano solo per la macellazione. Questa politica agraria oltre a danneggiare l’economia, allontanava i contadini dalla coltivazione della terra, quello che avevano appreso dai loro padri li lasciava lontani dai nuovi metodi di coltivazione, la terra produceva solo quello che la forza della  natura benefica era capace di produrre, la terra veniva sfruttata sempre, limitatamente aiutata dalla mano dell’uomo. Molti maggiorenti, studiosi e osservatori (sia siculi che stranieri), si interessarono al problema, proponendo anche soluzioni, per quell’epoca, moderne. Il p.pe Pietro Lanza di Trabia (forse il più grande proprietario terriero dell’isola) lamentava che “la decadenza dell’agricoltura in Sicilia dipendeva dalla povertà dei contadini, dalla falsa credenza che il loro mestiere fosse il più vile, dalla condotta dei proprietari che davano le loro terre in estaglio (4), a persone che scrupolosamente ripetevano quello che avevano visto fare ai loro antenati, dal difetto di cognizioni agrarie, comuni fuori  Sicilia,” proponeva un “Teatro agrario o un Educandario” in cui i giovani potessero istruirsi nell’agricoltura.” (5). Anche Giovanni Meli, malgrado non fosse molto addentro ai problemi dell’agricoltura, si interessò alle misere condizioni dei lavoratori dei campi … la gente civile non si accorgeva di essere ingiusta nei confronti dei loro benefattori …e chi, secondo lui, erano i benefattori  ?… “i bifolchi, i villani, che bagnano col loro sudore la terra per trarne i più salutari alimenti,  alcuni dei quali non è loro concesso un boccone, perché tutto devono vendere alla Capitale.”, con questi versi:

 

Vui autri picorara e viddaneddi,

chi stati notte e jornu sutta un vausu (una rupe)

o zappannu o guardannu picureddi,  

cu l’anca nuda e cu lu pedi scàusu,

siti la basi di cità e casteddi,

siti lu tuttu, ma ‘un n’aviti làuso (meriti),

l’ingrata Società scorcia e maltratta

ddu pettu chi la nutri e unni addatta.

 

E il m.se Domenico Giarrizzo (autore del “Prospetto dei saggi politici ed economici sulla pubblica e privata felicità della Sicilia”) sosteneva che “la società è in obbligo di prestare agli individui che la compongono i mezzi di sussistenza, questi non può procurarglieli, perché siano reali ed effettivi, che con l’agricoltura, ogni altro mezzo è certamente precario.” Ma anche le terre comunali (7) erano soggette al fenomeno dell’abbandono: si impediva di fatto la coltivazione dei terreni, i fondi erano di proprietà del Comune e il contadino ne traeva quei benefici che riusciva a prendere, ma non era portato a migliorare le culture,  non avendo né i mezzi né i supporti necessari; lo stesso dicasi per le terre che erano in mano ai fittavoli. Secondo una nota descrittiva di un apologista del Senato (Tejxeira), Il colono riceveva il frutto della terra innaffiata coi propri sudori, fatta la recollezione (raccolta), un indispensabile dovere l’obbligava ad esitarlo (a indugiare o attendere), e ciò per soddisfare i diritti di terraggio (8), semente, coltura ed altri. Non trovando, così sollecitamente, un compratore dei prodotti, il colono era costretto a ricorrere a un trafficante usuraio, (quale ceto di persona trovasi in ogni luogo), e da questo riceveva il prezzo, non secondo della giustizia, ma regolato dalla sola sete del guadagno. Ed ecco così in pochissimo tempo arrivare il frumento di proprietà di un numero strabocchevole di coloni al piccolo numero di trafficanti, o almeno dei fittajuoli, i quali ingrossata la massa, con questi mezzi disponevano dell’acquisto da padroni assoluti, e non lo mettevano in vendita se non a prezzi strabocchevoli. Il Monte frumentario, istituto creato allo scopo di distribuire, in periodo di carestia, gratuitamente o sottocosto (a prezzo politico) il grano alla popolazione, non rispose mai, dal tempo della sua istituzione, adeguatamente ai bisogni di coloro che ne ebbero bisogno; gli interessi che si dovevano pagare agli appaltatori del Senato, ai proprietari del grano e ai caricatori del Regno (9) consumavano il capitale, e per questo motivo l’alternativa alla vendita del grano a prezzi vili a coloro che lo accaparravano era quella di rifiutare la vendita col pericolo del fallimento. Naturalmente i baroni per non sottoporsi ai disagi, preferivano non coltivare le terre, anzi di abbandonarle trasferendosi nei palazzi e nelle ville della capitale, dove si dedicavano alle riunioni, alla vita dei circoli, alle feste, ai giochi, ai passatempi, affidandosi, per vivere, alle sicure entrate annuali, tanto l’istituto del fedecommesso (10) era quello che garantiva l’accentramento dei beni anche alle future generazioni. Insomma la Sicilia, definita al tempo dell’Impero romano, il granaio d’Italia era in costante abbandono.

…..

* Lions Club Milano Galleria – distretto 108 Ib-4 – matr. 434120

…..1) un noto viaggiatore francese, Jean Claude Richard abate di Saint Non (1727-1791) – incisore, disegnatore, umanista, archeologo – nella sua opera Voyage Pittoresque esprime somma meraviglia del fatto che i baroni palermitani preferissero passare voluttuosamente la vita in ozio in città piuttosto che interessarsi di quella terra che non visitarono mai. Lo stesso fu notato dal naturalista Stoimberg, che trovandosi di passaggio (1792) nei pressi del palazzo del m.se di Santa Croce (di qua da Mongerbino), accortosi dello stato di totale abbandono dello stesso, ebbe conferma dal castaldo (amministratore) che “questi palazzi non hanno mai visto i proprietari, … vi son baroni, morti, senza aver mai visitato i loro beni …”. Stesse considerazione vennero fatte dall’Abate Paolo Balsamo (1764-1816) titolare della cattedra di agricoltura della Reggia Accademia degli Studi di Palermo (membro ecclesiastico del Parlamento siciliano, uno dei redattori della Costituzione del Regno indipendente di Sicilia – su ispirazione di quella inglese -) ;

2) forse qualche lettore … meno giovane … ricorderà che anche “nel ventennio del deprecato regime” esistevano ancora questi problemi ai quali si cercò di ovviare mediante interventi sia in materia di lotta al latifondo, sia di costruzione di case coloniche per alloggiare i contadini, sia di nuove strade …;

3)  nel settecento per andare da Palermo ad Alcamo, la strada buona arrivava fino a Monreale, oltre non esisteva alcuna strada carrozzabile, il che impediva il traffico tra i due centri abitati; un viaggiatore di quell’epoca notava che la distanza, in linea retta tra i due centri non era superiore alle diciotto miglia ma in pratica per andare da una città all’altra si percorrevano oltre trenta miglia;

4)  antica denominazione del contratto di affitto del fondo agricolo, dietro pagamento di un canone in denaro o in natura:

5) ma tale concetto non venne mai ascoltato, neppure dal Re, forse perché i feudatari non avevano la volontà di affrontarlo;

6) queste considerazioni, furono messe in bocca dal Meli a don Chisciotte, nel poema “Don Chisciotte e Sancio Panza” – secondo Giuseppe Pitrè – per non destare l’indignazione dei baroni – latifondisti;

7) il diritto di pascolo e di legnatico, indispensabile alla vita delle popolazioni rurali, da tempo immemore, veniva riconosciuto da leggi o da tradizioni, a coloro che si insediavano in determinati territori di proprietà comunali;

8) i braccianti agricoli, gli affittuari e i coltivatori diretti che coltivavano i ceriali, in condizione di soggezione alla terra e ai suoi padroni, di matrice medioevale;

9)  per secolare tradizione, l’apparato amministrativo di controllo delle attività commerciali delle derrate alimentari faceva capo al Maestro Portolano, che era coadiuvato dai vice portolani, dislocati nei porti abilitati all’esportazione, i così detti “caricatori”;

10) è quell’istituto, (tutt’ora previsto agli artt. 692 del c.c. sia pur con alcune varianti) che consentiva di disporre di tutto o parte dei propri beni, con l’obbligo di conservarli per destinarli, dopo la morte dei beneficiari, ad altri eredi.

 

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