Il maiale non è il porco: parte seconda

(di Pinella Bongiorno)

Ma c’è addirittura chi compone poemetti, come P. Benigno da S. Caterina che, col solenne titolo La nobiltà di lu Porcu, canzuni siciliani composti in Trapani l’annu 1787, decanta le delizie del sanguinaccio:

‘Ntrapani sangunazzi cc’è perfetti,

li fa la Batia Nova li chù esatti;

oh quantu ingredienti chi ci metti

di zuccaru, cannedda e cicculatti

frutti canniti e milli ‘ntinguletti

cotti da focu lentu cu lu latti;

si vonn’iri ammucciari li sorbetti

si aviti un Paradisu ‘ntra li piatti.[1]

Il maiale, oltre a ispirare l’artigianato dolciario, è ricercato per la bontà delle sue carni che padroneggiano soprattutto nella gastronomia, prodigandosi all’arte culinaria  con migliaia di ricette offerte sia dalle modalità regionali e sia  dall’estro dei cuochi. La sua presenza, nel desco, tuttavia dipende anche da considerazioni di ordine religioso secondo la distinzione operata fra gli animali ritenuti puri o impuri. Il maiale, per la sua natura ctonia, è perlopiù bandito dagli adepti nei banchetti a carattere sacro o iniziatico, mentre per la gente più comune il consumo delle sue carni assicura la riuscita del momento conviviale.

In epoca romana, molti autori dichiarano la propria preferenza alla carne suina e ne fanno grandi elogi; nelle loro opere esprimono il gradimento anche per una vistosa apparecchiatura della pietanza, al fine di suscitare, a tavola, lo stupore dei convitati.

Il liberto Trimalcione accoglie i suoi ospiti con cibi prelibati e, non potendoli intrattenere con discorsi particolarmente colti, li stupisce organizzando ricevimenti con portate stravaganti che susseguono a ritmo frenetico. Ai convitati, ormai sazi dopo il lauto pasto, egli riserverà ancora una sorpresa. «Difatti, sparecchiate le tavole a suon di musica, vengono condotti nel triclinio tre maiali bianchi, tutti addobbati con campanelli e cavezze […]Chiamò quindi il cuoco, e […] il cuoco corse trafelato in cucina col suo arrosto vivente […]. Non aveva ancora finito di dire fesserie che un vassoio con un enorme porco riempì tutta la tavola […]. Il cuoco rivestitosi prende il coltello e si mette a tagliare il ventre dell’animale. Man mano che il taglio diveniva più profondo dagli squarci venivano fuori involtini e salsicce»[2].

Nel Medioevo il grasso di maiale era il condimento principale e si usava cuocerlo e poi conservarlo, esso non mancava mai nelle dispense degli aristocratici. Nelle tavole, riccamente imbandite, facevano la comparsa dei piatti di cacciagione al cui taglio provvedeva il trinciante, il quale distribuiva i vari pezzi ai commensali in rapporto alla loro importanza. Il consumo di carne di maiale era diffuso ed apprezzato dai buongustai poiché in cucina si utilizzava qualunque parte dell’animale. Ecco una ricetta (XV sec.) preparata per i Duchi di Milano:

Per acconciare bene una porchetta

Fa’ in prima che sia ben pelata in modo che sia bianca e netta. Et poi fendila per lo deritto de la schina et caccia fore le interiori et lavala molto bene. Et dapoi togli i figatelli de la ditta porchetta et battili bene col coltello insieme con le bone erbe, et togli aglio tagliato menuto, et un poco di caso grattugiato, et qualche ovo, et pepero pesto, et un poco di zafrano, et mescola tutte queste cose et mettele in la ditta porchetta, reversandola a modo che si fanno le tenche, cioè ponendo quello di dentro di fori. Et dapoi  cusila insieme et legala bene et ponila accocere nel speto, o vero su la gratucula. Ma falla cocere adascio che sia ben cotta così la carne come etiamdio il pieno. E fa, un pocha di salamora con aceto, pepero et zafrano, et tolli doi o tre ramicelle de lavoro, o salvia, o rosmarino; et gietta spesse volte di tal salamora in su la porchetta.[3]

I Romani erano ghiotti delle poppe e delle matrici, ritenute fra le parti più ricercate, come pure il fegato e le frattaglie.

E se questi cibi non fanno arricciare il naso, ancora oggi, a Palermo esistono i venditori di queste specialità che offrono ai passanti con i tipici versi di richiamo:  a) Chi vennu ruci a stufatu, aricchi’ i puorcu! b) Aricchi e mussa! U cappucceddu càuru! C) Haju piruzzi, piruzzi!

Come vengon dolci a stufato, orecchi di porco! b) Orecchi e grifo! Il cappuccetto caldo! (l’orecchio del majale che fa una specie di cappuccetto). C) Ho pieduzzi, pieduzzi!». [4]

Non può, dunque, stupirci la lunga tradizione che annovera questo animale come un elemento di grande rilievo sia per l’economia sia per l’alimentazione, giacché del maiale nulla va sprecato anche se ad esso sono collegati i modi di dire più contrastanti. Si può affermare, ad esempio, di una persona che è grassottella come un maialino, intendendo con ciò evidenziare la piacevolezza delle sue rotondità oppure, diametralmente all’opposto, sottolinearne la pinguedine o, ancor peggio, secondo un giudizio morale, la trivialità di costume. Ma anche per rappresentare la condizione di degrado in cui si trova un individuo si suole dire “E’ un maiale!” oppure “Sporco come un maiale!”

La metamorfosi che impone la maga Circe ai compagni di Ulisse, nel noto episodio dell’Odissea, è emblematica in tal senso poiché si offre all’esegesi teoretica della metempsicosi, di matrice pitagorica ed orientale, che vuole la trasmigrazione delle anime in altri corpi; la loro condizione migliora o peggiora secondo una percorrenza ascendente o discendente lungo l’asse uomo-animale. Assumere perciò le sembianze di un porco significa subire un’involuzione, uno svilimento della dignità umana che esige, nel suo effetto spirituale, la purificazione.


[1] A. Rigoli, Un inedito di Salomone Marino sulla vita e i costumi dei siciliani, Estratto dagli “Annali della Facoltà di Magistero” IV- VII (1963-1966)

[2] Petronio Arbritro, Satyricon (XLVII – XLIX), traduzione e prefazione di G. Schito, Policrom ed., Roma 1969.

[3] Grazia Rossanigo Pier Luigi Muggiati, Amandole e Malvasia per uso di corte. Cibi e ricette per le tavole dei Duchi di Milano, Aisthesis, Milano 2001, pp. 44-45.

[4] G Pitrè, Usi e costumi, op. cit., vol. I, p. 392.

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