GIOVANNI BENEVENTANO, L’immortalità, Nusco, Stamperia delle Streghe, 1967

DA “ LA DONNA CHE PARLAVA AI LIBRI”

di   Dante Maffìa

Sono arrivato a Roma dal paesino, da pochi mesi. Ho avuto la fortuna di conoscere alcuni dei poeti che amo; ho subito conquistato la loro confidenza, la loro cordialità. Sono Caproni, Penna e la Bemporad. Caproni è delizioso, parla sempre del suo violino, come di un magico oggetto che ha risolto sempre i nodi intricati della sua vita. L’ho accompagnato più volte a Tivoli, dal professor Marvardi, uomo delizioso, che suona anch’egli. E io canto. Dicono che ho una voce bella. Mi va di crederci.
E mi ricordo di quando mio padre al paese mi mandò a lezioni di musica. Don Battista, che aveva diretto per anni una banda musicale di Napoli, mi mise in mano il metodo Boni e per due anni circa mi fece solfeggiare. Una palla che finì per farmi odiare la musica, gli strumenti musicali e chiunque accennasse a Verdi o a Mozart. Mi riconciliai in parte il giorno in cui, in un pagliaio alla periferia di Roseto, scoprii, con altri due compagni, che qualcuno aveva nascosto sassofoni, trombe, clarini .e tamburi. Un arsenale di strumenti che luccicarono appena noi li tirammo fuori dalla paglia. Naturalmente li vendemmo a un rigattiere di Ferrandina e per qualche mese facemmo i signori al bar e in qualche ristorante della zona.
Penna l’ho visto la prima volta alla Libreria Feltrinelli di Via del Babbuino. Facevo il militare in Via Castro Pretorio. Mostrine gialle, cioè raccomandato esente da turni di guardia e da marce. Imboscato al Ministero, insomma.
Ricordo che Penna mi squadrò da capo a piedi: la divisa mi stava bene, era attillata, pesavo circa sessanta chili, avevo i capelli folti e nerissimi e gli occhi verdi. Ma capì subito che mi piacevano le donne e fu scaltro nel presentarsi con una domanda bizzarra. Appena il commesso della libreria, a cui mi ero rivolto,  gli disse che ero un poeta calabrese che desiderava conoscerlo, lui, invece di dire piacere, come sta, o altra qualsiasi frase di convenevoli, mi domandò a bruciapelo se sapevo che cosa stava facendo in quel momento Alberto Moravia. Avevo vent’anni, venivo da un paesino, ero impacciato ed emozionato, e rimasi imbambolato e silenzioso alla sua domanda. E lui, serafico:
“È davanti allo specchio e si sta domandando: ‘Sono più grande io o Thomas Mann? Sono più grande io o Thomas Mann?’ “.
Continuai a restare in silenzio, incapace di proferire parola, disorientato. Era quello che in fondo Penna voleva e ci riuscì bene. Poi facemmo amicizia, ma mi rifiutai ad andarlo a trovare spesso nella sua casa. Era di una sporcizia che superava qualsiasi fantasia, di una sciatteria vomitevole. Mi prese in grande simpatia, anche perché poi gli confidai di amare la poesia di Saba su tutte le altre.
“Quindi ami anche la mia”. ( PRIMA PARTE)

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