I salotti letterari di Gabriella Maggio

(Carmelo Fucarino)

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Mercoledì 16 febbraio 2011, alle ore18,00, con la consueta cadenza mensile, si è tenuto al Centro culturale Biotos, promosso dall’instancabile Maria Di Francesco, Presidente Associazione VOLO, il salotto letterario, ideato con il titolo emblematico di “Scrittori in mostra” e diretto dalla prof. Gabriella Maggio. Dopo gli indirizzi di saluto di Daniela Brignone, Presidente Assocultura, e di Maria Di Francesco, è stata sotto i riflettori la scrittrice Lavinia Scolari che ha interloquito sulla sua opera L’uomo dal Campanello d’oro, “romanzo di esordio”, come recita il risvolto di locandina. Il tema del libro è fatale conseguenza della sua laurea in lettere classiche con una tesi sulla favolistica latina, ma soprattutto della sua specializzazione in Scienze dell’Antichità con la dissertazione di laurea "Contaminazione, Potere e Morte: l’Anello che tiene tra Virgilio, Seneca e la ‘sub-creazione mitologica’ di Tolkien". Come se non bastasse, corrobora la scelta tematica essere socia del Centro Internazionale di Studi sul Mito. Ad introduzione Gabriella con un’analisi accurata ed esperta ha individuato il complesso reticolo di reminiscenze e di riverberi, ha tracciato un possibile iter di lettura del testo, sollecitando poi con le sue domande l’autrice a svelarne il processo.

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Non nascondo che mi trovo alquanto perplesso davanti alle moderne definizioni letterarie di un genere antichissimo come l’uomo, la “narrazione”. Essa è presente nell’Odisseo “narrante”, ma anche in altro contesto nella geniale Mille e una notte. L’uomo sente il bisogno di partecipare la sua esperienza agli altri e la narra (“nar ru”, l’Uno accadico), prima in forma aurale, poi orale. Lo scrittore ne imita la prassi e la traspone nello scrittura con tutti i limiti che comporta la trascrizione, come rimarcò l’affabulante Socrate nel mito di Teuth (Fedro, 274 C-275 D, “scrittura immagine di sogno”) o Platone sulla comunicabilità dell’episteme (VII Lettera, autobiografia, a Dione, 342-344, “le cose scritte non erano per lui le cose più serie”). Poi il dotto letterato ellenistico inventò il “romanzo greco”, che trapassò nella latinità della crisi sistemica e culturale, con le imitazioni di Petronio nel solco della satura lanx e con la traduzione-interpretazione di Apuleio esoterico. Molto capitulatim. Tutti conoscono la letteratura moderna, soprattutto l’immensa e alta produzione francese e russa, perché la riassuma. In Italia il caso di Manzoni D’Azeglio Guerrazzi, fino ai Verga, Pirandello e alla nostra grande fioritura dell’ultimo Dopoguerra.

Oggi perciò mi frastornano le acrobazie “definitorie” dell’oggetto del narrare, a cominciare dal taglio del capello, senza valore critico, di romanzo breve o racconto lungo, che mi sa di mestiere di sarto, pardon di stilista. Esse rimandano ai passatempi dei retori medioevali. Ma mi intrigano di più le cervellotiche catalogazioni, fino all’invadente agghiacciante horror, di quella che una volta era la disonorevole narrativa gialla (solo per la copertina dei libretti Mondadori), che pare essere oggi l’unica forma di scrittura creativa nelle sue infinite dotte varianti assieme al cosiddetto romanzo storico, contradictio in terminis (l’abusato oxymoron), a partire dallo sciagurato raggiro manzoniano del manoscritto (“storia milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta”), come se l’antichità potesse rendere vero un fatto pur sempre narrato.

E sorge il problema. Come definiremmo l’intrigante romanzo nel romanzo di Cupido e Psiche? E gli esperimenti gotici (cosiddetti storici) di Umberto Eco in quale categoria li iscriveremo?

Perciò comprendo la difficoltà di un’attenta lettrice e di una raffinata studiosa di letteratura, come Gabriella, che ha dovuto orientarsi in mezzo alle spericolate invenzioni mitologiche della scrittrice. Se, come deve ammettere l’autrice, gli dei greci erano intensamente vissuti, come culto e rito, non mi risulta comprensibile l’accostamento con la pura invenzione fantastica moderna (1937-49) di John Ronald Reuel Tolkien che nulla a che vedere con il mito, almeno negli archetipi del sistema psichico dell’inconscio collettivo, definito da Carl Gustav Jung (Psychologische Typen, trad. it. Tipi psicologici, Torino 1969; Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Torino 1982; L’uomo e i suoi simboli, Milano 1980), distinto dall’inconscio personale (sulle strutture dei miti e delle religioni, della cultura orale e delle fiabe popolari, cfr. Joseph Campbell, Mitologia primitiva – le maschere di Dio, Milano 1990). Perciò è improbabile volere rintracciare un sostrato cultuale della coscienza popolare in una invenzione linguistica e leggendaria tutta soggettiva come The Lord of the Rings, ambientato alla fine della Terza Era (geologica?, non c’era l’uomo), nell’immaginaria Terra di Mezzo (la Mesogea o Tetys, area geologica di sedimentazione marina dell’era algonchiana?). Un conto è la sua saga, fantasiosamente definita “epic phantasy”, altro è volere creare un racconto “phantasy”, utilizzando il mito greco classico. Tutto è possibile nel gioco tolkieniano della lingua (nulla di originale nelle brume nordiche se si pon mente alla beffa del 1761 di James Macpherson con la sua epopea di Fingal e del figlio Ossian in lingua gaelica). Sono però due categorie completamente diverse per l’humus (ahinoi!, maschile in italiano) teologico e culturale che sorregge il mito (cfr. l’agile sintesi di Furio Jesi, Mito, Milano 1973). Perciò l’allusione di un ascoltatore alla “mitica” Ferrari testarossa, con la stessa accezione del siciliano mafiusa. L’irriverente Luciano trattava di dee che la ritualità del suo tempo aveva reso umane, troppo umane e corruttibili, come i nostri santi per un ex-voto. Altra cosa è l’indagine del sostrato mitico nei ricordati ventisei Dialoghi con Leucò (1945-1947), o lo smagliante classicismo del raffinato Roberto Calasso (Cadmo ed Armonia). Perciò non mi convince in questo romanzo la loro discorsiva umanizzazione, la banalizzazione in vicende terrene, che non riesco a seguire nella loro scansione sotto surreali, moderni, rintocchi (campanello che riecheggia anello?). Non riesco a seguire la logica che possa essere additata come pregio la difficoltà per il lettore di seguire le vicende, perché così non è coinvolto, costretto a tornare indietro, senza vivere materialmente la vicenda assieme ai personaggi. Non mi convince neppure l’eccessiva frammentazione (per es. l’ellenistico Leandro senza Ero accanto alla mitica dea Cassandra) e la solitudine dei personaggi fino a giungere alla possibilità, adombrata in una risposta, di provare a seguire autonomamente e singolarmente le loro vicende. Ciò vuol dire che non interagiscono tra di loro e quindi si potevano far vivere da soli, in racconti separati?

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Tirate le somme, al di là delle opinabili rielaborazioni mitologiche, il “romanzo” si può ben accogliere per quello che realmente è, cioè un puro divertissement, come consapevolmente lo ha definito l’autrice stessa, una dotta affabulazione su personaggi classici creati in epoche distanti tra loro.

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