IL MONACO FOLLE ED IL MONACO GENTILUOMO ( II parte)

(Valentina Mirabella)

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Il monastero di S. Nicolò lo Bosco costituì una tappa obbligata per tutti quei viaggiatori che, da Catania, salivano sull’Etna, fornendo ricovero ai viandanti. Nel 1824 Edward Boid, ricorda ancora la consueta rotta che «attraversa Nicolosi e passa dal celebrato convento di San Nicolò dell’Arena […] Qui sono rimasti solo pochi confratelli laici […], i quali, occasionalmente, ospitano i viaggiatori sulla strada per visitare la montagna; ma la permanenza non è agiata come presso i Benedettini di Catania e questo, adesso, è diventato un luogo di sosta indesiderabile e squallido». Probabilmente Coleridge, come altri viaggiatori, soggiornò presso questo luogo, sebbene nulla ci dica riguardo all’ospitalità ricevuta. Viene piuttosto colpito da una iscrizione lapidea situata all’interno del monastero, che egli trascrive sul suo quaderno di viaggio. Non poco è stato lo stupore nell’accorgerci che si trattava della stessa rinvenuta in occasione del restauro dell’edificio. Questa epigrafe, certamente successiva agli eventi catastrofici della seconda metà del 1600, fu scritta in ricordo dei pii monaci seppelliti dalle nere arene, e a celebrazione della ricostruzione dello stesso monastero:

Qualunque straniero faccia ricerche su questo tempio

si fermi un poco sulla soglia e

onori la santità del luogo

non distrutta dal succedersi del tempo.

Qui, sotto le nere arene,

Sono seppellite le ceneri dei pii monaci.

Non stupirti.

La sterile sabbia delle sacre ossa

si mescolò ovunque nei grati frutti

e diede i ricchi tralci del palmento.

E coloro che in vita

sparsero i profumi delle virtù

disgregati in polvere

rifioriscono ancora nei fiori.

Tu illustre girovago,

sta lontano da questo tempio

e osservalo restaurato

grazie ai loro miracoli.

Esso, abbattuto dalla furia del monte Etna,

si levò, dalla rovina causata dal terremoto del monte,

una seconda volta, più bello.

Si rivestì di una bellezza più nobile

per la coltre dell’avversa fortuna

cosicché tu dica che

la pietà ha combattuto

tra tanti svariati casi e ha trionfato.

Dunque, prosegui felice

e accogliendo l’effige del nume tutelare

con religioso culto devoto

ti sia promesso quanto c’è di prospero

grazie alla sua tutela[1].

Già l’abate Lazzaro Spallanzani, in Sicilia nel 1788, recatosi sull’Etna per i suoi studi geologico-naturalistici, parlava dei monaci del «gradito Ospizio pe’ forestieri che viaggiano all’Etna», della loro strenua resistenza alle asperità del sito, testimoniata da «più iscrizioni che in quell’abituro si leggono, qua di ruinosi tremuoti, là di correnti di lave, altrove di nembi di arena[2] […] che lo hanno dannificato, e talvolta quasi distrutto, raccontandosi insieme le varie epoche de’ riparamenti già fatti», senza purtroppo riportare alcuna di queste iscrizioni.

Anche Spallanzani lascia una accurata descrizione del paesaggio etneo, dalla quale traspaiono i suoi interessi scientifici, che differiscono profondamente dalla creatività del poeta inglese. I ricordi e le impressioni raccolti in Sicilia rivivono dopo anni nella mente di Coleridge, in un componimento drammatico e visionario. The mad monk, il “monaco folle” di Coleridge, intona il suo cupo lamento d’amore ai piedi di un castagno sulla cima di una caverna, sull’Etna.


[1] S. T. Coleridge, The Notebooks of Samuel Taylor Coleridge, cit., (trad. a cura di E. Turrisi)

[2] Da qui deriva la denominazione di S. Nicolò “l’Arena”.

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