Il salotto letterario di Gabriella

(Carmelo Fucarino)

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Ieri sera, giovedì 5 maggio, si è concluso il ciclo di questo anno sociale degli incontri con gli autori, creati, introdotti e condotti da Gabriella Maggio, in collaborazione con l’Associazione Volo, la cui presidente Maria Di Francesco, ha offerto un pregevole supporto tecnico e organizzativo.

Se mi è permesso, un grazie sentito ai creatori dello spazio e qualche riflessione a conclusione del ciclo. La prima, di carattere generale, riguarda l’originalità della struttura dell’evento. Si è voluto abbinare la parola scritta, nelle sue forme letterarie di poesia e di prosa, alla creazione pittorica, linguaggio in linee e colori. L’accoppiata parola-immagine ha dato l’occasione di intrecciare i due linguaggi e di coglierne l’identità, pur nella diversità degli strumenti, l’invenzione convenzionale dei segni grafici e le linee e l’assunzione del colore, pur essi convenzionali e legati allo stile, sublimazione della realtà. Perciò il duplice piano delle serate, da una parte gli “Scrittori in mostra” e dall’altra la perfomance pittorica nelle diverse gallerie.

Ciò ha comportato due scelte, quella degli scrittori e quella della cornice delle Gallerie d’Arte. La vetrina degli autori, non occorre dirlo, è stata legata all’attualità delle edizioni, perché l’intento programmatico di Gabriella era quello di aprire uno spazio di presentazione e commento critico alle nuove generazioni degli autori, ma rivolto precipuamente alle nuove leve letterarie della nostra città. Era una valorizzazione dovuta nel predominio dell’industria letteraria settentrionale che lancia sul mercato i suoi prodotti di consumo e li impone al circuito dei premi nazionali, senza escludere il nostro glorioso Premio Mondello, soggetto pur esso alle lobby delle grandi major editoriali.

La simbiosi con l’arte ci ha aperto inoltre, secondo aspetto dell’iniziativa, la visione di tante micro realtà, sconosciute a me e, credo, alla maggior parte degli intervenuti, quel mondo di iniziative artistiche che passano inosservate, perché manca un canale istituzionale di informazione e di promozione. I media si occupano, anche in questo settore, delle grandi istituzioni e gallerie che hanno finanziamenti e visibilità a pagamento, mentre c’è uno spaccato cittadino di iniziative che vive di genialità e di sacrifici individuali.

La creazione, in stile salotto alla buona o caminetto, è stata, quindi, sommamente interessante e utile in questo contesto asfittico e oscurato dell’arte palermitana, in cui solo le performance museali faraoniche e dispendiose hanno divulgazione e visibilità, anche se talvolta espongono fondi di museo e copie di opere estere. Ci è stata offerta l’occasione di entrare in questo micro-cosmo di iniziative che vivono di un loro circuito limitato, di soci iscritti o di amici della rete, che offrono uno spazio alle nuove leve della pittura palermitana. Una piccola notazione e un consiglio per la futura edizione, perché l’incontro delle due espressioni artistiche appaia più creativo e paritario. Mi sembrerebbe opportuno dedicare uno spazio, anche semplicemente illustrativo e biografico, all’autore che momentaneamente espone. Le immagini, appese ai muri, lo confesso, ci passano davanti e restano ignoti e muti spettatori, che avrebbero invece una loro giustificazione.

In questa ultima serata ci ha aperto il suo immenso spazio espositivo la Galleria Monteleone, collocata in un angolo strategico, la deliziosa e suggestiva piazzetta Due Palme, sì, proprio con le sue esili palmette ondeggianti, ma anche gli immancabili cartelloni e i lavori in corso. Peccato, ma è preferibile non guardare gli edifici di fronte.

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Il salotto ha ospitato la scrittrice Daniela Scimeca con la sua opera La lunga marcia verso casa.

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Del testo ci hanno dato un saggio alcuni alunni della padrona del salotto Gabriella, passi che da loro stessi hanno ritenuto significativi. Sull’argomento dell’opera si è detto quanto bastava per attivare la curiosità, essendosi puntato di più sull’esperienza dell’autrice, sulla nascita del suo interesse per la narrativa, sull’essere scrittrice, proprio nella realtà al femminile. Dalle sue risposte si è colta quella impellente esigenza della nuova generazione di dare corpo all’esperienza, di ricavare i significati del vivere, perché alla fine diventino messaggi. Quello che più mi ha colpito è stata l’insistenza sulla semplicità dell’esperienza, sul raggiungimento della serena esistenza, – precisava “non della felicità che è fatta di attimi” -, di quel nonno che vive il dolore e la miseria dei campi, vedi caso, con quel Nino Guareschi, il futuro autore del reazionario don Camillo e del suo Cristo democristiano e visceralmente, anche se bonariamente anticomunista. La figura del nonno ne esce dalla sua rievocazione grandiosa, proprio perché ne risulta un uomo comune, incastrato negli ingranaggi della storia, piccolo granello in quell’immane macello organizzato dai potenti. Per mia colpa, non ho potuto ancora leggere il libro, ma dal calore dell’autrice mi è sembrato cogliere tante pagine bellissime di cronache di guerra, ma soprattutto la semplicità disarmante di un Rigoni Stern o di un Primo Levi, quel doloroso itinerario di una liberazione interiore, che si realizza attraverso la creazione letteraria, liberazione del novantenne nonno narrante e della giovane autrice scrivente, che vuol cogliere speranze, desideri e insegnamenti della grande storia pur nel piccolo mondo di un cuore semplice. È perciò la storia di un ritorno a casa, non pertanto il richiamo di Comencini e del suo umanissimo Alberto Sordi, quelle peripezie di tanti fuggiaschi dai campi di “raccolta” (quanta tragica ironia!), che abbiamo sentito raccontare, io da quel Salvatore che sbucciava le patate per i Tedeschi ed aveva la fortuna di mangiarne le bucce, lui che, dopo tanti chilometri a piedi con le scarpe a brandelli, fermato dalla barriera dello stretto era stato salvato da una coperta militare, obolo per il barcaiolo, come il mio professore di italiano, il terribile Vincenzo, si definiva il leone incazzato, che dopo le prime esperienze di prigionia in una tenda nel Sahara era finito nel cosiddetto Far West, dove aveva avuto il tempo di imparare a memoria tutta la Divina Commedia, mal per noi in quanto strumento di tortura con i suoi indovinelli, «chi si trova nel canto … chi nel cerchio o nel girone?».

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