Salotto di Gabriella dedicato a Rosa Balistreri

(Carmelo Fucarino)

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L’ultimo appuntamento pre-estivo del salotto letterario di Gabriella Maggio, organizzato dalla dinamica Maria Di Francesco, presidente dell’Associazione Volo, il 30 giugno 2011 ha trovato la sua location in un luogo della memoria, quella biblioteca comunale che ci ha visto alla scoperta dei suoi tesori negli anni gioiosi. Quella sala di lettura in penombra, quel silenzio che odorava di carta antica, diversa dall’ariosità della sala dell’altro sito gesuitico, la Biblioteca, allora Nazionale, del Collegio gesuitico. Al centro di questo arioso colonnato Gabriella Maggio ha introdotto il genere particolare della poesia popolare e la specificità della canzone folk in lingua siciliana, certamente, come ha fatto osservare, sacrificata dall’invadenza e dalla preponderante fama universale della canzone napoletana, che tra l’altro non è sentita come folklore, ma è vera e propria creazione di cantautori come quella in lingua italiana. Nell’abituale dialogo con l’autore del volume Rusidda… a licatisi, Nicolò La Perna, Gabriella ha analizzato la struttura dell’opera, articolata in diverse sezioni, temi e aspetti della ricerca dell’autore. Questi, a partire dalla biografia che ha completato con nuovi apporti rispetto a quella tradizionale, scarna e ormai introvabile, ha fornito altra documentazione con testimonianze di amici e conoscenti della cantautrice. Il libro è completato dalle esperienze teatrali e musicali, l’ascesa nazionale con Ci ragiono e canto di Dario Fo, il cimento con la Ballata del sale, fino alla Lupa, alla Lunga notte di Medea e alle Eumenidi, è arricchito dai testi e dalle partiture di tutte le canzoni. L’intervento video di Ignazio Buttitta, le testimonianze di amici, la voce vibrante e accorata della giovane Francesca Campisi hanno reso piacevole la serata che Gabriella ha tenuto sempre ad alto livello culturale.

Se mi è permesso, un ricordo strettamente personale. Fu una serata indimenticabile, propiziata dall’amore per le esperienze letterarie, non solo quelle nazionali, ma anche quelle tipicamente siciliane, del Centro di Cultura Siciliana “G. Pitré”, la creatura di Domenico Bruno, presidente dal 1973, che amò e guidò con infaticabile amore insieme a un gruppo attivo di fondatori nel 1970, fra i quali mi onoro. Si volle creare una serata dedicata, in un piccolo teatro, che ricordo nella evanescenza della favola e del sogno, forse il Teatro Teatès del compianto Michele Perriera. E si cominciò con l’arte della parola e del gesto epico, la voce e i movimenti scenici di Mimmo Cuticchio, i suoi splendenti paladini, il tradimento del perfido Gano e poi l’amuri di Angelica e i primi timidi sacrileghi trasbordi nei miti popolari. Poi si offrì nella sua semplicità, nel volto frastagliato di popolana la Rosa, in mezzo a noi, a toccare il suo vestito zingaresco, a percepire i sospiri, i rantoli, le effusioni del suo amore infinito che straripava (allora non era imperante il letterario “esondare” di originali cronisti TV) e ci sommergeva tutti, pochi intimi a godere delle sue creazioni. Fra tutti ricordo quel celebre lamento, così ricordato da Ignazio Buttitta (20 ottobre 1984): “Io ho incontrato Rosa Balistreri a Firenze, circa 22 anni fa, in casa di un pittore mio amico. Quella sera Rosa cantò il lamento della morte di Turiddu Carnivali che è un mio poemetto. Quella sera non la dimenticherò mai. La voce di Rosa, il suo canto strozzato, drammatico, angosciato, pareva che venissero dalla terra arsa della Sicilia. Ho avuto l’impressione di averla conosciuta sempre, di averla vista nascere e sentita per tutta la vita: bambina, scalza, povera, donna, madre, perché Rosa Balistreri è un personaggio favoloso, direi un dramma, un romanzo, un film senza volto”. Tutti citano il rapporto con Sciascia, ma la vera simbiosi psichica e sentimentale fu con Ignazio, un dialogo che era in sintonia con la loro anima popolana, lei spigolatrice di Licata, lui commerciante di Bagheria, alla scoperta della profonda e vergine anima popolare. Era l’impegno civile e politico che aveva dettato tanti canti, in registri diversi, dal dolore quotidiano della miseria al tema della condanna mafiosa. Solo per citare qualche canto: Acidduzzu, La virrinedda, Mirrina, La pampina di l’alivu, Cu ti lu dissi, Venniri Santu, alla celebre Mi votu e mi rivotu (cavallo di battaglia di Mara Eli, stroncata in un incidente stradale), fino al forte j’ accuse di Mafia e parrini, oppure il terribile Carzari. La giovane Francesca si è cimentata nell’ironia smagliante di Me mughhieri unn’avi pila, che si intriga con la novità della lavatrice. Poco hanno aggiunto gli altri interventi.

Con diverso amore amai tra gli anni Sessanta e Settanta la voce calda e passionale di Gabriella Ferri (la morte tragica nel 2004 per una caduta dal balcone, l’improvviso ictus per Rosa), non certo quella di Dove sta Zazà, ma quella che si incanagliva con la sua Roma popolare (vi ricordate La società dei magnaccioni del 1971?). Così Le mantellate ricordava Matri chi aviti li figghi a la badia, così tanto saettare di coltelli. Così altre rievocazioni malavitose si ripetevano nelle celebri Canzoni della mala di Ornella Vanoni, già nel 1957 con le solite Mantellate e Canto di carcerati calabresi, La Zolfara. Era tutto un fervere di esperienze popolari che davano vita ad un’Italia sotterranea che era ancora viva e sentita. Quella vita eccezionale che aveva antiche radici, dal Porta del Lament del Marchionn, delle Desgrazi de Giovanin Bongee e della Ninetta del Verzee fino alla plebe gaglioffa del Belli, ma anche alla vita eccezionale degli Scapigliati.

Oggi? Si corre il rischio, come giustamente ammoniva Gabriella, di fare archeologia del Folklore, di musealizzare questo immenso patrimonio di esperienze di vita. La ragione? Tutta la materia è passata in mano agli addetti ai lavori, a quella scienza che purtroppo, nell’intento di salvare quella vita, la sta imbalsamando come un imenottero, parlo, con molto rincrescimento e sine ira et studio, del laboratorio palermitano di Cocchiara, gli studiosi di tradizioni popolari o antropologia culturale. L’amore tout court di Pitrè per la tradizione popolare trasformato in scienza. Ma è soprattutto l’assenza di geni dell’affabulazione emotiva, di cantatrici come Rusidda che davano a quei canti di vita il respiro dell’anima, dalle semplici ninnananne, ai canti del lavoro (la trebbiatura o la pesca), alle proteste sociali, tutte le ricerche sul campo, che formano già un’immensa biblioteca di sapere, sono destinate a restare relitti di un passato forse irrimediabilmente perduto.

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