LA SCELTA DI LUCIO

( Pinella Bongiorno)

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Un tema cui accostarsi con reverenziale timore è la morte, non quella biologica che pure esige riguardo anche se considerata nella sua disposizione naturale, bensì quella programmata, scelta da chi ritiene giunto il momento di congedarsi da questo mondo, poiché le condizioni non sono più propizie a mantenersi in vita. Diversi fatti sollevati dai media inducono a riflettere su questa scelta estrema, portata a compimento da un gesto volontario. Così è diventato un dibattito piuttosto controverso intorno alla pratica di “suicidio assistito” che contrappone le coscienze di diverso orientamento, cui ciascuno arroga per sé il primato ontologico della verità. La filosofia ha cercato di dare risposte ancor prima delle problematiche avanzate dalla Bioetica, disciplina che reclama una nuova concezione della Morte a proposito della dignità del malato terminale e al suo diritto di chiedere l’interruzione della terapia. Illuminante può risultare Il diritto di morire, 1985 di Hans Jonas. Si esclude, qui, volutamente la dimensione religiosa per operare con la sospensione del giudizio da un punto di vista, giustappunto quello della fede, che si reputa appartenere alla sfera più intima della persona. Il concetto della Morte ha risentito di interpretazioni quanto mai audaci e pacate insieme, tanto che l’angoscia che ci afferra – definita da Heidegger “l’anticipazione emotiva di essa” – si stempera di fronte all’asserzione di Epicuro: Quando ci siamo noi, la Morte non c’è; e quando c’è la Morte, noi non ci siamo.

 

I grandi temi dell’esistenza sono assimilati dal linguaggio pittorico con straordinaria capacità d’ effetto e di sintesi. Ciò dipende certamente dall’abilità dell’esecutore, il quale, oltre a una felice disposizione manuale, deve possedere un’intima visione che traduce in colore, luce, rapporto spaziale quella poetica del sentimento che scioglie la fruizione temporale per farsi intuizione di un tempo astorico. Perciò ricorrere all’arte può facilitare e agevolare un discorso per sé ostico che fa ricorrere molti agli scongiuri e formule scaramantiche dagli improbabili effetti. Allora cosa può essere particolarmente esemplificativo se non ricordare la morte di un filosofo, proprio colui che nei suoi scritti addita nella morte la via del saggio? Le tele di Luca Giordano (1632-1705) e di Jacques Louis David (1748-1825) entrambe intitolate “Morte di Seneca” sono conservate: la prima al Museo del Louvre e la seconda al Musée du Petit-Palais. I due capolavori (scelti fra altri con lo stesso argomento) si offrono ai visitatori secondo una narrazione che insiste, più che sull’episodio specifico, sul messaggio essenziale del filosofo, in base al registro stilistico della pittura di ciascuno. Lucio Anneo Seneca (4 a. C. – 65 d. C.) torna straordinariamente attuale e la sua figura viene restituita, dalle suddette pitture, proprio nel momento solenne del suo trapasso. Il filosofo, nell’interpretazione di Giordano, è attorniato dai discepoli che lo assistono e ne ricevono gli ultimi insegnamenti: chi ascolta e chi prende appunti con lo stilo, e nonostante il dolore traspaia dai loro volti non viene meno il senso del dover raccogliere e tramandare il pensiero del Maestro. È questa la consegna più rilevante che ha voluto rappresentare il pittore napoletano; ed è forse il senso più compiutamente filosofico del messaggio che focalizza non il congedo dalla vita ma il valore della vita del sapiente assurta a emblema e modello.

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Nel proclamare il nuovo gusto Neoclassico, David descrive la scena inseguendo forme ideali di bellezza e di compostezza; i personaggi ruotano attorno a Seneca protagonista assoluto, paradigma di morigeratezza e virtù, con il volto esprimente il distacco e l’imperturbabilità professata nella sua stessa dottrina stoica. (fig. 2)

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Recentemente ci ha colpito la dipartita di Lucio Magri, esponente politico noto a chi ha vissuto al tempo della contestazione giovanile e che ha visto proliferare gli schieramenti e le lotte sociali in maniera diffusa e a tratti violenta. La sua vita è stata segnata da uno slancio intenso, sia nel privato sia nel pubblico, e la sua condotta è stata caratterizzata dal rigore e dalla ricerca costante della verità. L’impegno politico lo vede gravitare, giovanissimo, nell’orbita della Democrazia Cristiana per sfociare al Partito Comunista dove trovare risposte e posizioni più adeguate al suo desiderio di equità e giustizia, nonché quel suo pungolare il PCI con incalzante tensionalità critica. Se ne distaccherà e fonderà “IL Manifesto”. Con lui sembra aprirsi il sipario al neologismo “Cattocomunismo” che tormenta le intransigenze dei più ortodossi. Lucio, il cui nome è qui accostato, impunemente per qualcuno, a quello di Seneca non fa alcuna fatica a reggere il confronto non certo per la statura dottrinaria, in cui peraltro si è distinto sia pure su un altro livello intellettuale. La sua esistenza è sicuramente vissuta con la stessa tensione morale evocata da Seneca. Forse ancor più! Sappiamo, difatti, come il filosofo abbia avuto un tenore di vita in netto contrasto con i suoi dettati. La scomparsa di Mara Caltagirone, moglie amatissima, come pure lo sfacelo cui la Sinistra è andata incontro lo hanno reso particolarmente fragile. La stessa reputazione morale, per la quale i comunisti sentivano come una propria prerogativa, è stata dilaniata da episodi di corruzione e disfattismo. Poi la malattia e il 28 novembre si è spento in Svizzera. Il funerale è stato celebrato Il 3 dicembre a Recanati, affidando agli amici di sempre le sue ultime volontà, e durante la sepoltura il Requiem di Mozart si diffondeva per l’aria.  Per tutti coloro la cui morte volontaria, non confortata da alcun alto principio, da nessuna consolatione philosophae e non trovando gli onori della storia o della cronaca, per costoro, colti dalla disperazione e sopraffatti da un triste destino, nutriamo quella umana simpatia. Per essi, si diceva, offriamo simbolicamente il canto di Maria Callas che, dalle note acute a quelle gravi, in un’escursione vocale insuperabile intona “Suicidio” di Amilcare Ponchielli.Per quella “pietas” che si deve esercitare di fronte alla tragedia suprema lo stesso Seneca raccomanda: Delle cose grandi bisogna giudicare con animo grande; altrimenti attribuiamo alle cose difetti che, invece, sono nostri.

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