La Musica Italiana, Regina Dovunque Tranne In Patria

(Daniela Scimeca)

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Qualche tempo fa, durante un viaggio nella splendida Praga, ho stretto amicizia con un ragazzo giapponese. Se ne stava seduto su una panchina ad ascoltare musica dagli auricolari, seguendola sullo spartito cartaceo. Mi sono fermata accanto a lui dopo non so quanta strada a piedi. Approfittando della distrazione, o forse per fare una pausa, chiede se sono anch’io una studentessa. Nel mio claudicante inglese rispondo di essere una turista che si gode la città, e di ritorno domando cosa stia ascoltando in cuffia. Con un inglese assai più fluente, dice: «parti della Traviata». Ne sta studiando le caratteristiche musicali per poterci preparare una relazione. È a Praga per una ricerca su Verdi e le sue opere. Ha vinto una sorta di borsa di studio all’università e segue un corso di alta formazione. Ci sono ragazzi di tutto il mondo che studiano musica lì, perciò pensava fossi una di loro. Provo subito un senso di disagio. Sulle prime non capisco la ragione, poi pian piano, nella mia mente, si fa chiaro il motivo dell’imbarazzo. Quel ragazzo dovrebbe trovarsi in Italia, perché è l’Italia la patria di Verdi, è in Italia che ha vissuto e ha composto.

Gran parte delle sue opere si legano in modo evidente alla situazione politica di allora, e gli spettacoli che venivano messi in scena alla Scala rappresentano uno spaccato sociale e culturale dell’epoca che dà un’immagine precisa del fermento culturale determinato dalla musica e da ciò che le girava attorno. Giuseppe Verdi è solo il più conosciuto degli autori italiani che hanno reso famoso il melodramma a livello mondiale. L’elenco dei compatrioti con cui ha scritto la storia della musica sarebbe lunghissimo. Anche il padre di Mozart lo aveva mandato a specializzarsi nel Bel Paese. Le connessioni tra la musica mozartiana e alcune opere di Cimarosa sono state messe più volte in evidenza da critici, esperti, nonché professionisti come Muti. L’Austria è il punto di riferimento per chi vuole formarsi in materia: città come Vienna e Salisburgo offrono corsi di avvicinamento o di perfezionamento, stage estivi, concorsi per giovani musicisti, e in ogni angolo di strada vengono distribuiti volantini per decine di concerti. Seguendo l’esempio, città come Praga si industriano e utilizzano il patrimonio musicale tricolore per fare cultura, invitando giovani appassionati e talenti nelle strutture locali, creando un’atmosfera di fermento, simbiosi, crescita, interscambio reciproco. Da qui nasceva il mio senso di disagio: dalla consapevolezza di vivere in un paese in cui la musica è stata per secoli protagonista indiscussa, e ora sembra relegata in un angolo, rinchiusa fra le mura di conservatori e teatri. Proliferano altri tipi di attenzioni e contratti, da quelli televisivi alle tresche in odor di bluff, stornelli di rapido consumo, parentopoli e pseudo-talent show. Nel sistema scolastico Musica è una materia casuale, quasi distratta, spesso neppure segnata in maiuscolo. Una sorta di ora di alleggerimento, in cui si soffia dentro a un flauto – più comunemente etichettato come “piffero” – e solo in rari casi si apprendono i fondamenti di base. Dovrebbe essere uno dei corsi se non principali, o almeno più curati, per non relegare una sontuosa tradizione nella memoria di pochi aficionados; invece la musica, Cenerentola in margine, è relegata a una manciata di minuti settimanali alle Medie Inferiori. Dove è trattata con la superficialità di cui sopra. Alle Medie Superiori è pure peggio. Esclusa dal programma di base, è presente solo al liceo Socio-Psico-Pedagogico e in pochi altri corsi sperimentali. La riforma proposta dal ministro Gelmini prevedeva un liceo Coreutico-Musicale, ma lungaggini e problematiche relative all’attivazione hanno spento le speranze di chi sognava un’inversione di tendenza. Il liceo musicale è divenuto una sezione del già presente Socio-Psico-Pedagogico, e in molti casi, vista l’enorme quantità di iscritti, si è dovuto ricorrere ad un sorteggio che ha concesso a poche centinaia di alunni di frequentare l’unica classe possibile. Così accade che io, italiana in vacanza a Praga, incontri un ragazzo orientale che ha deciso di fare della “mia” musica, se non la sua ragione di vita, quantomeno il principale interesse, la passione. E che questo ragazzo sia costretto a studiarla dovunque, fuorché in Italia. «Perché?», mi chiedo. Qual è la ragione per cui non prendiamo in considerazione un simile background culturale, nonostante si parli di crisi e controcrisi? Sarebbe un mercato florido, se si avesse l’intenzione di investici sopra. Se si avesse a cuore proprio quella cultura che tanto viene sbandierata a sproposito. Molti, ahinoi, preferiscono l’usa e getta, l’importazione di motivetti di temporaneo successo, accettando in modo passivo di impoverirsi. Nessun Ministro dell’Istruzione si è mai posto la questione, e i governi tecnici hanno sorvolato il problema con altre urgenze. Persino la prima della Scala viene considerata un’occasione di pura mondanità, un appuntamento per cariatidi borghesi, anziché un evento musicale d’eccellenza. È inverosimile che l’unico legame con un passato di grandeur sia garantito – e per pochi adepti – da edizioni più o meno cicliche di lezioni in formato DVD di Riccardo Muti, dai corsi di Uto Ughi, o da iniziative isolate come quella di Fabio Fazio, che in accordo con gli organizzatori del programma invita il maestro Barenboim in trasmissione. E quest’ultimo regala pillole di cultura, ricordando che con essa è possibile fare miracoli, e cita la West Eastern Divan Orchestra, da lui fondata con lo scrittore Edward Said, allo scopo di favorire il dialogo fra musicisti di svariati paesi, spesso storicamente nemici. Ma questa è una vicenda che purtroppo non appartiene all’Italia.

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