Il dialetto siciliano: un linguaggio da salvaguardare

( Giuseppe Pappalardo)

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Il cantastorie – dipinto di Giuseppe Pappalardo

Il dialetto è la nostra prima lingua; in essa ritroviamo la voce della madre, dei compaesani, dei compagni di scuola. Quando si parla di sicilianu, però, bisogna innanzitutto chiedersi se esso è una “lingua” o un “dialetto” tout-court. Col termine “lingua” si intende l’insieme delle convenzioni (fonemi, grafemi, regole) con cui gli appartenenti ad una comunità comunicano fra loro. Gli elementi caratterizzanti una lingua sono, essenzialmente, la tradizione letteraria e la rilevanza politica, cioè l’uso nei documenti ufficiali. Il dialetto è invece un linguaggio usato in un’area geografica limitata. In fondo la lingua è un dialetto che, per varie vicende storiche, ha assunto una posizione di prestigio nella comunità nazionale. Per il dialetto siciliano, se è vero che ha una forte tradizione letteraria, è vero pure che non ha valenza politica. Inoltre, in un mondo tecnologicamente avanzato, mancano tanti termini. Per tali ragioni ritengo che il siciliano non sia una “lingua”.

E’ più corretto dire che il dialetto siciliano è un linguaggio rimasto in bilico fra lingua letteraria e vernacolo. Giuseppe Pitrè scriveva che “nel dialetto c’è la storia del popolo che lo parla”. La considerazione vale appieno per il dialetto siciliano. Questo idioma conserva tracce della storia millenaria della Sicilia. Poco si conosce del linguaggio con cui, 3000 anni addietro, parlavano i Siculi (ad Est) e i Sicani (ad Ovest). Di questi popoli si conservano rare iscrizioni. Sappiamo però che essi provenivano dal Lazio. E’ certo quindi che il siciliano è figlio del latino popolare. A Federico II e alla sua Magna Curia si deve il prestigio che assunse il dialetto siciliano dopo l’anno 1000, tanto da far scrivere a Dante che “il volgare siciliano avanza gli altri di gloria”. Verso la metà del 1400 il “sicilianu” subì un colpo mortale: la corte aragonese scelse il volgare toscano come lingua ufficiale e il siciliano si ridusse a vernacolo popolare. In questo periodo il dialetto si arricchisce e mutua dallo spagnolo sintagmi quali perifrastiche del tipo avi du anni ca (ace dos años que). Nel secolo scorso il siciliano ha subito un processo di italianizzazione dovuto ad un ceto piccolo-borghese che, se per un verso ha contribuito a modernizzarlo, per altro verso ha fatto perdere tanti arcaismi legati a mestieri in via di estinzione. Negli ultimi cinquant’anni il numero dei parlanti è andato diminuendo. La prosa dialettale è scomparsa, con nocumento per il lessico e la sintassi. La scuola, durante il ventennio fascista e fino a qualche decennio fa, si è attestata su una posizione di rifiuto della “malerba dialettale” e della sua letteratura. Insomma: oggi c’è da temere che il sicilianu rischi l’estinzione. Si deve riconoscere che il dialetto siciliano, seppure sia ricco di colore ed espressività, non ha le risorse lessicali e sintattiche della lingua italiana; non si possono ignorare le difficoltà a cui va incontro un autore che voglia scrivere in dialetto. Però questo non può giustificare il pregiudizio secondo cui il sicilianu è un linguaggio adatto a persone semplici o a gente di paese più che ad intellettuali o a chi vive in città. Penso che, se questo pregiudizio non verrà contrastato, le prossime generazioni assisteranno alla scomparsa di un patrimonio linguistico che, in altre nazioni, è rispettato e valorizzato. In uno scenario che indurrebbe al pessimismo, si intravvedono segnali risveglio. A livello politico regionale si è concretizzata una legge (9/2011) che guarda alla scuola come luogo privilegiato per la salvaguardia della cultura siciliana. Ci sono margini per sperare che il sicilianu non si riduca ad un mero oggetto di studio per lessicologi e dialettologi. Si spera che gli autori ritrovino il gusto di utilizzare questo linguaggio, almeno per continuare a scrivere versi. La poesia conserva un certo appeal, come testimonia il persistere della sezione vernacolare nei concorsi letterari a premi. La poesia può dunque rappresentare l’ultima spiaggia per evitare che il nostro dialetto diventi una lingua morta, al pari del latino o del greco antico.

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