Un’indagine internazionale

(Carmelo Fucarino)

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Anch’io conservo una turbah, presa innocentemente nella moschea degli Omayyadi di Damasco, quel gioiello di una città martire profanata dall’orrore delle stragi, ove è custodito in una cappella, si dice, il capo di S. Giovanni Battista, anche per loro profeta, detto Yahya. È una tavoletta rotonda di argilla, terra prescritta quella di Karbala, luogo di una celebre battaglia, con incisi versetti del Corano. Su di essa gli Sciiti poggiano la fronte nella “prosternazione”, forma dell’antica proskynesis, di obbligo davanti ai sovrani persiani che riusciva, come narra Erodoto (I, 134, 1; cf. Plut., Them. 27, 4-5), pratica tanto ostica ai Greci, perché atto indegno di un uomo davanti ad un altro uomo. Così recita il Corano: «Celebrate dunque le lodi al vostro Signore, e siate tra quelli che si prosternano in adorazione» (15, 98).

Questo preambolo per dire che già dal titolo sicuramente sibillino per la maggior parte dei profani la nuova indagine del commissario Mancuso ha preso una strada ben precisa e diversa da tutte quelle note nei romanzi cosiddetti polizieschi di estrazione occidentale, anche sicula, oggi scandinava promossa a furor di spot. Si evince che c’entra la società araba con la sua profonda e sentita religiosità, quell’islam, quello slancio verso il divino snaturato dalle lotte fratricide tra le diverse versioni del culto di Allah e le faziosità di supremazia politica. Cose a noi note con le varie crociate e guerre di Trent’anni e più. Il morto oggetto di indagine è perciò particolare e rimanda ad un uso rituale specifico, legato alla preghiera, il momento più alto della vita religiosa islamica e forse di tutte le forme religiose, da quando l’uomo cercò una speranza soteriologica in un dio al di sopra di lui. Qui il morto si accampa in primo piano, è il protagonista rispetto al commissario e lo è soprattutto per un suo segno particolare di identificazione comunitaria, quel bernoccolo o callosità in fronte che in arabo è la zebiba. Non si tratta però di un marchio qualunque, perché può procurarlo soltanto una continua assidua preghiera, cinque fondamentali quotidiane, e con la pratica rigorosa del rito. Può un fedele così devoto morire annegato, perché ubriaco? Ecco lo spunto che non convince Mancuso in week-end con la fidanzata poliziotta a Capo Granitola. Carlo Barbieri ci propone ancora con il suo ultimo Il morto con la zebiba il suo eccentrico commissario “di città”, con un nome assai diffuso di sicura origine siciliana, alle prese con una delle sue indagini. Ma questa volta la sua investigazione si allarga ad una società che l’autore conosce profondamente di persona per le sue frequenze al Cairo, ma anche nella Teheran dei grandi rivolgimenti politici e religiosi. Perciò, diciamo con un termine assai di moda, intriga questo viaggio, più di quanto potrebbe essere la trasferta di un poliziotto americano in Europa e viceversa. Intanto è ancora lo stesso commissario del precedente La pietra al collo e dei primi racconti di Pilipintò che fa presupporre la serialità delle indagini che naturalmente andranno man mano scavando nel personaggio e lo andranno meglio definendo. Ed è estremamente importante la reiterazione di questo connubio con una Sicilia che è rimasta fisicamente radicata nel cuore dell’autore, nonostante le esperienze medio-orientali e il suo domicilio romano. Ma in questo romanzo è la stramba Sicilia che oggi risuona di voci arabe come un secolo fa, quando il culto di Allah si praticava nelle mille moschee di Palermo e dintorni, Alcamo in cima. Attuale quindi questo scenario tra Sicilia ed Egitto, questa ricerca scandita in una società, certamente multirazziale, ma soprattutto di lingua, religione e cultura araba. Si pensi alla doppia indicazione delle strade della Palermo intorno al Cassaro, la quasi completa islamizzazione di Mazara del Vallo, significativa perché per secoli questa parte dell’isola occidentale fu indicata anche nelle carte e nelle divisioni territoriali normanne, sveve, aragonesi, come Val di Mazara. Perciò cade a proposito l’ambientazione geografica e culturale dell’inchiesta che distingue pertanto questo “poliziesco” da tutti gli altri. Adriana Falzone ha chiesto all’autore le derivazioni della tipologia sicula di Camilleri e i possibili richiami dell’originale caricatura di Catarella o altre allusioni e simbiosi con il commissario siciliano per eccellenza. Penso che ogni autore metta una parte di se stesso e delle sue esperienze personali nella creazione di un personaggio. E qui le esperienze islamiche dell’autore sono lampanti. Perciò non aggiungo nulla al mistero dell’intrigo internazionale, ma invito alla lettura di un racconto che tocca il particolare contesto multietnico palermitano e siciliano sul quale il Lions Palermo dei Vespri vuol aprire uno spiraglio di reciproco scambio ed arricchimento. È anche un tentativo di indirizzare alla conoscenza di un ambiente culturale che ormai ci tocca da vicino, che riveste i caratteri di una vera e propria rivoluzione, senza stragi e senza guerre, l’innesto nella nostra società, erede di una radicata pratica culturale e linguistica con l’arabo (si veda la monumentale Biblioteca arabo-sicula di Michele Amari, 1881), di un gruppo che può e deve farci riflettere sulle nostre origini sociali e politiche, su parte del nostro DNA. Fu quel 17 giugno dell’827 che un gruppo di Berberi assieme ad Arabi e Persiani sbarcarono a Capo Granitola presso Mazara del Vallo e conquistarono il thema bizantino di Sikelia. Riflettete sulla strana coincidenza del sito che si fissa nel romanzo. Vi rimasero per quasi due secoli, fino alla conquista normanna avviata nel 1061 su invito di un arabo e protrattasi fino al 1072 con la conquista di Palermo. Si può essere avversi alla ricchezza culturale della Sicilia araba, come qualche storico siciliano elogiatore del sommo Svevo civilizzatore, ma in piena coscienza non si può negare che quei secoli non passarono invano nelle menti e negli animi dei siciliani. Basta considerare le emergenze di epoca normanna che sono in stile arabo, ma che per salvare la faccia si sogliono indicare come arabo-normanne. Basta frugare lungo l’orlo semicircolare e leggervi la scritta in caratteri cufici del manto del grande Federico, svevo educato in Sicilia, mantello realizzato in un tiraz reale arabo nel 1134, ora nel museo imperiale di Vienna (Hofburg, Weltliche Schatzkammer). Ma si aggiunga soprattutto che ancora oggi comunichiamo con molti vocaboli arabi, meno di quanto poté fare la fugace meteora tedesca, che ebbe altre sedi imperiali nella penisola e produsse altra cultura ostica a noi, formati su solida radice greco-bizantina.

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