“Nella notte dei cani randagi”

(Carmelo Fucarino)

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I luoghi di Cristo, Monte Tabor e la Jezreel Valley da Nazareth

 

«Mio caro Uri, sono ormai tre giorni che quasi ogni pensiero comincia con "non". Non verrà, non parleremo, non rideremo. Non ci sarà più questo ragazzo dallo sguardo ironico e dallo straordinario senso dell’umorismo. Non ci sarà il giovane uomo dalla saggezza molto più profonda di quella dei suoi anni, dal sorriso caloroso, dall’appetito sano. Non ci sarà quella rara combinazione di determinazione e delicatezza. Non ci saranno il suo buon senso e l’assennatezza del suo cuore».Questa epigrafe ho voluto porre alla folgorante storia di A un cerbiatto somiglia il mio amore, che si snoda per le 1148 pagine dell’edizione Flipback. David Grossman voleva elevare una condanna del suicidio di due popoli, rimodulando una frase del più sublime canto di amore (Cantico dei cantici, 2, 9). Non poteva immaginare che l’Ofer-Cerbiatto della sua storia sarebbe stato suo figlio. Ha avuto il coraggio di proseguire la storia che ora era sangue del suo sangue.

 

Non avevo letto una storia così sconvolgente, grumo di tutti i dolori che hanno sommerso il mondo, ma sopra ogni cosa atto profondissimo di amore, come mai fu vissuto e consumato per un figlio perduto prima del suo pieno sbocciare: «Migliaia di attimi, di ore… un’infinità di gesti… di sbagli… E tutto per fare un unico uomo al mondo […]. Un unico uomo, che è così facile distruggere» (p. 927). Nessun figlio mai ha evocato un sentimento così struggente. Nessun figlio forse ha donato tanto, come questo che ha costruito il letto per i suoi genitori (p. 1043). Odisseo lo preparò per le proprie nozze. L’inizio conversevole di tre sedicenni in un reparto di quarantena a Tel Aviv, un procedere per sprazzi di colloqui deliranti e l’incerto esplodere del sentimento di amore tra adolescenti in un luogo di desolazione e di immensa solitudine. Poi un salto cronologico e sentimentale. Orah, la fanciulla divenuta madre, che si fa accompagnare da un tassista arabo («vedrai come sarà sensibile quel Maometto dalla spada sguainata», p. 162) verso il luogo della fine. Da questo punto la decisione e l’inizio del suo allucinante viaggio in incognito e senza meta alla ricerca di se stessa e della coppia di amanti e figli. Ma anche la fuga dall’incombente e temuta prospettiva, l’incubo della notizia ufficiale. Tutta la situazione è assurdamente reale e profondamente umana. Una donna, contesa e sommersa di amore da due amici, Avram (“padre di tutti”), “il nome più economico”, ed Ilan (“albero”), che se la giocano a sorte mettendo i loro nomi in un berretto, la nascita incrociata dei due figli. Il cerbiatto-Ofer diviene l’idolo onnipresente dell’amore e della perdita assoluta. Le vie della Galilea, lungo i segni della linea di confine, quella martoriata Cisgiordania vissuta dolorosamente nelle note e amate località, segnate da cippi funerari, nelle piante e nei profumi della terra cristiana, nell’ascesa al monte Carmelo. In una assoluta fuga dalla notizia, un volere esorcizzare ed evitare il destino capitato allo scrittore, lo scarto dall’informazione: «Cari amici, nella notte tra sabato e domenica, alle tre meno venti, hanno suonato alla nostra porta. Al citofono hanno detto di essere "gli ufficiali civici". Sono andato ad aprire e ho pensato, ecco, la vita è finita. Ma cinque ore dopo, quando io e Michal siamo entrati nella camera di Ruti e l’abbiamo svegliata per darle la terribile notizia, Ruti, dopo il primo pianto, ha detto: "Ma noi vivremo, vero? Vivremo come prima. Io voglio continuare a cantare nel coro, a ridere come sempre, a imparare a suonare la chitarra"». Perciò l’affermazione che la loro vita non era finita. Per Orah invece era un “affare arbitrario, unilaterale” che lo Stato, l’esercito, la guerra le imponessero di accettare di ricevere la notizia della morte del figlio (p. 233). Perciò la fuga surreale e il rifiuto di riceverla. Il fratello di Ofer dal nome emblematico, Adam, “uomo”, rimane come controluce, perché vita parallela che oppone resistenza e sopravvive alla guerra. La storia della fuga della madre Orah diventa la storia dolorosa di una perdita privata, che in questa recentissima recrudescenza degli odi incancreniti di due popoli è di stretta attualità. Nella lettera al figlio Grossman scrive: «In questo momento non dico nulla della guerra in cui sei rimasto ucciso. Noi, la nostra famiglia, l’abbiamo già persa. Israele ora si farà un esame di coscienza, noi ci chiuderemo nel nostro dolore, attorniati dai nostri buoni amici, circondati dall’amore immenso di tanta gente, che per la maggior parte non conosciamo, e che io ringrazio per l’illimitato sostegno».Come Ofer, il suo Uri «era un ragazzo con dei valori, parola molto logorata e schernita negli ultimi anni. Nel nostro mondo a pezzi e crudele e cinico non è "tosto" avere dei valori. O essere umani. O sensibili al malessere del prossimo, anche se quel prossimo è il tuo nemico sul campo di battaglia». Anche lui perciò era umanissimo: «Ricordo che mi hai raccontato della tua "politica dei posti di blocco", perché anche tu sei stato non poco ai posti di blocco. Dicevi che se c’era un bambino nell’auto che avevi fermato, innanzi tutto cercavi di tranquillizzarlo e di farlo ridere». La situazione tremenda è che la storia si sviluppa ai confini del Libano, nella Galilea di Jaffa, che il figlio era pure lui carrista, che era a conoscenza della trama e dei personaggi del libro, che durante la licenza chiedesse al padre, «cosa gli hai fatto fare questa settimana», che il libro fu ripreso ad una settimana dal lutto. C’è il tema del sionismo, la paura di un nuovo esilio di chi e da dove (p. 475), nel paese in cui vivere felici è “quasi un’impudenza”, «qualcosa per cui gli antichi greci sarebbero stati puniti» (p. 556). La paura di essere distrutti e il riconoscimento delle proprie colpe, la fede di continuare ad esistere (p. 769 s.). Fino a considerare l’ipotesi assurda, come quella della Nigeria da assegnare ai neri di America: se si fosse accettata la proposta inglese di stabilirsi in Uganda, tutta l’Africa avrebbe ribollito e sarebbe insorta contro il loro iperattivismo (p. 914). Ma nello ‘sbirciare’ nella sua vita non ha «la forza per le rovine di un villaggio arabo» (p. 559), oppure il sentire intensamente «quanto anche loro [i torturatori Egiziani] fossero uomini, con un corpo e un’anima» (p. 1001). Ed il rifiuto di unirsi alla «squadra scalcinata, al gioco della razza umana» (p. 571). Così la reazione violenta contro qualsiasi morte, contro chi uccide le mucche per mangiarne la carne e la scelta vegetariana (p. 567-8), che assurge a simbolo di difesa della vita tutta. C’è la cadenza insistente delle cenotafi dei caduti ebraici, ma anche la questione delle morti palestinesi, l’uso delle pallottole e del mirare alle gambe, ma anche la consapevolezza che verranno i loro fratelli, i loro amici e poi i loro figli in questa eterna vendetta (p. 1071). Così il fastidio verso le donne del Machsom Watch che manifestavano ai chek points. Oppure la questione del palestinese dimenticato in una cella frigorifera e la costatazione che uscire di testa «era l’unico modo che un palestinese aveva di uscire senza posti di blocco, documenti e controlli fisici» (p.1103).Non poteva scriversi una condanna più orrenda di quest’odio senza fine. Dalla parte israelitica toccata dalla perdita. Per una terra imbevuta solo di sangue fraterno, se entrambi sono popoli semiti.

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