Recensione a Voci dall’interstizio di Dario Caldarella (edizioni Kimerik)

(Lavinia Scolari)

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Quello di Dario Caldarella è un melting poetico interessante, che fonde un gusto personale per il postmoderno con moduli e stilemi della tradizione classica greca e latina. La poesia non si apre a una lirica sentimentale, ma è filtrata e reificata, soffusa negli oggetti e negli elementi dello spazio intorno all’io poetico, lasciando così maggior spazio alla rielaborazione sensoriale e al recupero memoriale e letterario. La raccolta, pubblicata nel 2013, opera prima del giovane autore (classe ’90), è intessuta di riferimenti classici più o meno espliciti, non solo sul piano formale, come dimostra l’invocazione a mo’ di proemio, ma anche su quello contenutistico e compositivo. La poesia d’apertura, infatti, assume i toni di un componimento cletico, che sostituisce alla Musa antica un poeta latino che funge da modello poetico evocato: Ovidio. Emerge sin dall’incipit un filo conduttore cromatico: l’amaranto e il nero di Ovidio, il grigio di Osservatore, il bianco, il nero e i grigi della Favola di Bianco e Nero, e sullo sfondo una luce ora rarefatta ora intensa, che ha il sapore del mediterraneo. Affiora così una tendenza alla riscrittura, in chiave poetica, di una sorta di “effetto ottico-fotografico”, della luce che gioca sul piano fenomenico, che si compone e scompone, come in Amarsi da una pozzanghera, dove sembra che lo sguardo della persona amata si rifletta nella pozzanghera tra luce e deformità, finché le figure si fondono in un amplesso visivo.

I campi semantici ricorrenti, le cifra stilistica, il tema della “vita degli oggetti” (caro ad esempio ad Adam Zagajewski) consentono di individuare una vera e propria poetica dello squarcio e del frammentario: Caldarella si muove tra fessure da indagare, intersezioni e interstizi (come da titolo), passaggi sottili che fungono da spiragli di luce e visioni: è un anelito, il suo, di spazi accennati, di grandi e sfuggenti aperture su finestre schiuse, tra lacerazioni violente e fusione di luoghi rievocati.  Non è una poesia della narrazione, ma una fluire di immagini sulla retina dell’immaginifico, giustapposizione sapiente di contorni e figure che fanno emergere l’io poetico: un io che guarda, deforma, interiorizza e registra sulla carta, ricostruendo la realtà come in un pointinisme letterario, come ad esempio in Terremoto:

Linee di confine si muovono

sopra orizzonti verticali, barcollano,

sfidano l’equilibrio del mondo.

Alambicchi di fuochi fatui tremano,

schivano schegge rarefatte dal vento

secco, immobile, presenza-assenza,

manifestante contro governi geologici,

silenziato dalla sua stessa natura.

Brividi tra banchi di sale, assorti,

scampano al delirio di tonni in scatola,

mentre salmoni di mare segnano la corrente,

noncuranti del voto di castità del cielo,

imprigionato tra le macerie di un relitto,

soffocato dalla sua stessa maestosità.

E le stelle sono libere di muoversi

tra i canali di un vuoto lucente.

Sebbene la poesia di Caldarella sia riconoscibile, non è mai identica a se stessa. Il registro linguistico e l’ispirazione poetica, dai toni più piani e dolci, cambiano e si rimodulano in Ti regalerò una macchina da scrivere, autentica nel suo refrain insistito, accostabile a Festa del papà: entrambe più “docili” e tenui. Esse costituiscono un’antifrasi interna rispetto all’uso martellante dell’anafora e all’insistenza sulla ripetizione di altri componimenti, confermando così la varietas della raccolta. Una raccolta né dolce né affettiva, ma quasi stridente e amara, anche nelle esplosioni di vita. Ed è il contrasto a venir fuori con prepotenza: da un lato il triplice tema del “deserto-silenzio-vuoto”, dall’altro l’inclinazione a creare immagini intricate, forme deformate e deformanti: dai colori delle grandi folle e dei loro “suoni”, fino al silenzio del vuoto e degli echi tra gli “interstizi”. Questa parola, centrale nella raccolta e nel titolo, si trova per la prima volta a p. 49, in Fessura (fuga di cervelli), un vero e proprio “Proemio al mezzo” secondo la fortunata definizione di Gian Biagio Conte, come nella migliore tradizione classica. Ma forse, più delle altre, è Goccia la poesia che meglio rappresenta – ad avviso di chi scrive – la poetica di Caldarella, di un io che svanisce dal testo, e che, pur scomparso, indica la sua presenza nell’attitudine a registrare ciò che c’è fuori di lui e attorno; un io che si scinde, invisibile, intangibile, ed è solo il ricordo di ciò che è stato:

sono solo lo specchio

di chi mi sta vicino. (cit. Goccia)

Uno specchio del reale, sì, ma uno specchio deformante che riscrive ciò che vede secondo quella poetica del frammentario che spezza le immagini, spesso complesse e giustapposte, e le ricompone riscrivendo il reale. Il gusto dell’elenco e dell’asindeto, ma anche dell’ellissi e della paratassi insistita, crea un effetto pittorico, quasi filmico, della scena che ti scorre davanti, come in Populismo e Festa del paese, che lascia intravedere una felice mescolanza di un paganesimo moderno e antico. La raccolta corre in una contiguità tematica di recuperi intratestuali e di rimandi, fino alla chiusa, a quella “ripresa del tempo”, che è l’ultimo verso della raccolta e si configura come un ossimoro in termini: apre alla rinascita dopo un’apparente percorso di fuga e chiusura tra un miriade di frammenti e di “oniriche” attese:

Climax sinfonico su toni di cornetta,

la nave lascia il mondo all’incontrario,

La fine delle danze alza il sipario

sul nuovo giorno dei normali [cit. da Sogno #2 (frastuono)]

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