WERTHER: UN AMMALATO D’AMORE

(Salvatore Aiello)

( Ph. Rosellina Garbo)

A conclusione della prima parte della Stagione del Massimo è approdato Werther  nell’insolita idea registica di Giorgia Guerra animata dalla voglia di  rappresentare, con un tentativo di attualizzazione, l’amore impossibile,  come in un vecchio film degli anni ’50 e con superflui spettatori-mimi nel parterre della sala intenti ad aspettare l’apertura del sipario. Il dramma di Massenet che attinge quasi totalmente al testo di Goethe, con un finale diverso, esprime in maniera parossistica di quali dolori, tormenti, passioni estreme sia intessuto l’amore. Una storia che ha la sua cornice nel secolo del  Romanticismo di cui Werther è la celebrazione dell’amore irrealizzabile in una società rigida per costumi ed etica. Non è un’opera facile perché c’è nell’animus del compositore anche il richiamo al teatro wagneriano che in qualche modo, in maniera contenuta, viene travasato nell’opera francese e gli atti sono quattro lungo i quali la vicenda si dipana con una certa lentezza che spesso non attrae del tutto il gusto odierno degli spettatori, prova ne sia che il teatro risultava semipieno e durante gli intervalli molti si siano dati alla fuga. Lo spettacolo ha goduto di una sua unitarietà; l’accordo tra il palcoscenico e la buca orchestrale è apparso completo in una lettura specificatamente naturalistica della scrittura massenettiana. In questa atmosfera si sono trovati ad agio gli esecutori: Francesco Meli ha potuto esibire un Werther assillato dal martellante desiderio di amare ed essere amato mettendo a disposizione  una vocalità pienamente lirica aliena da qualsiasi eroicità e piuttosto propensa a sottolineare i momenti più accorati e nostalgici. In consonanza con lui la Charlotte di Veronica Simeoni, debuttante del ruolo, che ci è apparsa adatta al genere e al personaggio ma di contenuta potenzialità vocale che però le ha consentito di delineare tutta l’infelicità, lo smarrimento per affrontare adeguatamente una vicenda del tutto particolare perché imprigionata tra le maglie del buon senso comune. Di buon rilievo la Sophie di Serena Gamberoni che ha convinto per scioltezza scenica, per una voce di rilevante timbro e adeguatamente estesa. Bene l’Albert di Christian Senn per calore  e morbidezza di emissione. Non trascurabile perché  amalgamato il resto del cast affidato alle voci di Nicolò Ceriani (Le Bailli), Francesco Pittari (Schmidt), Claudio Levantino (Johann), Carmen Ghegghi (Kӓtchen), Gianfranco Giordano (Bruhlmann). Omer Meir Wellber si è impegnato ad offrire una lettura della partitura con ricercato equilibrio tra tinte malinconiche, proprie del linguaggio del compositore, e le sonorità dell’orchestra; i tempi però talvolta sono sembrati un po’ lenti, smorzando l’atmosfera e i toni patetici. In risalto il coro femminile e quello delle voci bianche del Teatro istruiti rispettivamente da Piero Monti e Salvatore Punturo. Appropriato sempre il gioco di luci curato da Bruno Ciulli che ha creato in alcuni momenti  tinte quasi diafane. Per fortuna tradizionali le scene di Monica Bernardi inserite nel gioco di una ripresa cinematografica che scandiva scatti d’obiettivo, così pure i costumi anni ’50 di Lorena Marin. Assai pochi gli applausi durante l’esecuzione, cordiali e  significativi alla fine.

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