Pirandello ed Euripide

(Carmelo Fucarino)

In questo anno particolare del 150° dalla nascita di Pirandello, nel fragoroso silenzio delle celebrazioni del più grande o almeno del più controverso drammaturgo di tutti i tempi, sarebbe doverosa un’indagine sul suo rapporto con la cultura greca, per lui che si vantò di essere nato in contrada di u vuscu du Càvusu, il greco Chaos, la prima forma mitica dalla quale tutto ebbe origine. E meriterebbe un’indagine per lui che visse in quella Girgenti, ultima normanna, prima araba Kerkent, sui ruderi della romana Agrigentum, ma soprattutto Akragas, prestigiosa metropoli greca. Io voglio solo segnalare la vicenda di un semplice contatto assai indiretto, da traduttore di un traduttore. Si tratta di un’opera singolare ed unica nel teatro occidentale, il Kýklops di Euripide. Unico sopravvissuto dei misteriosi drammi satireschi della tetralogia tragica ateniese fino al 1912, quando venne alla luce il lungo frammento di un Papiro di Oxýrhynkhos che riportava circa 400 versi degli Ichnéutai (Cercatori di orme) di Sofocle. Il dramma euripideo è una rielaborazione in chiave parodica di uno dei più celebri episodi del viaggio nel meraviglioso cantato nel libro IX dell’Odissea, la tragica avventura nell’antro del Ciclope Polifemo. Nel 1918 era avvenuto un fatto straordinario, si era creato un eccezionale sodalizio tra Pirandello, il commediografo catanese Nino Martoglio assieme al suo amico ed interprete Angelo Musco e il giovanissimo innovatore Rosso di San Secondo, che nel 1917 con lo straordinario Marionette, che passione aveva entusiasmato l’agrigentino per il suo teatro allucinato e grottesco. In sintonia con le attività del Teatro Argentina avevano fondato la Compagnia drammatica del Teatro mediterraneo con l’intento di combattere “le falsificazioni brutali” che boriosi e creativi mattatori del tempo (lo straripante Angelo Musco?) operavano sui testi dei commediografi. Pirandello fu sollecitato a scrivere per la compagnia una commedia, naturalmente in dialetto siciliano, ed egli fece una riduzione in siculo di questo unico esemplare intero del dramma satiresco greco. Altra riduzione dialettale non sua fu il Glauco in sostegno dell’amico squattrinato Ercole Luigi Morselli. Naturalmente, non conoscendo il greco, si valse della magistrale traduzione di Ettore Romagnoli, a quei tempi il perfetto e competente traduttore di tutto il teatro greco e non solo, le cui traduzioni risuonavano a Siracusa sulle architetture sceniche di Duilio Cambellotti. All’esperienza del linguista e filologo si aggiungeva la sua raffinata capacità di interpretazione e trascrizione poetica dei testi. La rappresentazione avvenne il 25 gennaio 1919.  Per Pirandello si trattava di una fase complessa della sua vita umana ed artistica. Tragica per la sua vita familiare: in quel 1919 sarebbe tornato dalla prigionia austriaca il figlio Stefano, malato anche in conseguenza di una grave ferita; sarebbe stata ricoverata e per sempre in manicomio la moglie Antonietta per l’aggravarsi del suo stato psichico. Ma per reazione fu rivoluzionaria la sua invenzione teatrale. Dalle ultime propaggini del realismo ottocentesco, anche verghiano, si era affrancato, volgendo ad altro versante la sua attenzione. Fu la fase che in genere è catalogata come “teatro umoristico-grottesco”, quello che si era appena espresso con le creazioni di Rosso di S. Secondo. Non è che non avesse già sconvolto l’estetica e la prassi veristici con Lumie di Sicilia, portato al successo da Angelo Musco, attraverso La ragione degli altri (1915) e ai capolavori di Pensaci, Giacomino e Liolà (1916). Erano seguiti l’anno successivo Il berretto a sonagli e La Giara, ma già annunziavano un modo nuovo di interpretare la vita Il piacere dell’onestà, La patente e Il giuoco delle parti del 1918. In quel 1919 furono rappresentati a Milano a gennaio L’innesto e a maggio L’uomo, la bestia e la virtù. Questo in sintesi il percorso creativo fino a quell’anno. In mezzo si colloca questa prima esperienza di riduzione dialettale di opere non sue. Per dire che alla fine la resa dialettale fu essenziale anche nella sua stessa produzione. Naturalmente la spinta emotiva era stata offerta dal tema, la collocazione mitica della vicenda in una ipotetica Sicilia dei Sicelioti. Era una delle tradizioni consolidate l’ubicazione in Sicilia di quella terra in cui Omero aveva sviluppato una delle vicende del nostos odissiaco. Si trattava di una tarda location, restando nell’Odissea assai generica ed equivoca la regione detta “Sikelia”: c’era una vecchia schiava di nome Sikelé (Odissea, 24, 210) e un luogo Sikanía (24, 306), Eppure la leggenda di una Sicilia terra dei Ciclopi e del monocolo Polifemo si era imposta dall’epoca romana nonostante i Ciclopi nella cosmogonia ellenica fossero altra cosa: i soli tre Ciclopi della Teogonia esiodea, Bronte, Sterope e Arge sono figli di Urano e Gea come i Titani. Artigiani e siderurgici, in Callimaco diventano aiutanti di Efesto. E se Efesto ha la sua fucina sotto l’Etna, il gioco è fatto.  La versione pirandelliana è uno scontro-incontro di tre mondi, magistralmente realizzato nelle tre parlate che si intrecciano nella sua resa linguistica, assente nell’originale greco. La prima loquela è quella di avvio di Sileno che appare in una “timpa sarvaggia, e sciara. ‘nfunnu, la vucca d’una caverna”. In essa Antonino Pagliaro rinviene “qualcosa di cittadinesco”, diciamo la lingua della sua Girgenti. Egli rifà la sua storia dolorosa assieme ai Satiri fin quando lu vintazzu li gettò in quella terra di «spilunchi, antri, crafocchi – e cci addimùranu li Ciclopi cu ‘un occhiu, micidari figghiazzi di Nettunu. E nui, caduti ‘nmanu ad unu di chisti, ch’è chiamatu Polifemu, eccu ccà, Baccu, chi ‘ncànciu di li to’ triddi, semu addivintati tinti sirvazzi picurara». Gli fanno da bordone i satireddi che «s’arrizzòlanu nni l’orchestra, fincennu di cacciàrisi avanti li mandri, e trippiannu». Seguaci del «caru Baccu, miu beddu, tistuzza d’oru». Poi Ulisse, «trasi, vistutu di marinaru, cu darrè ‘na ciurma di cumpagni (saluta a la greca, stinnennu ‘a manu)». E la sua richiesta, dotta ed elaborata, studiata e colta, diremmo cosmopolita, da uomo che ha girato il mondo, tra siculo e italiano: «Amici, per favuri, vulissivu ‘nsignàricci quarchi deflussu d’acqua pi smorzàrinni la siti chi nn’avvampa, e peracasu quarchedunu di vàutri voli vinniri quarchi provista a nàutri navicanti?».  E infine il linguaggio rustico del contadino Ciclope che “trasi gridannu”: «Oh! e chi genti è chista cca davanti ‘a stadda? Chi su’ latri? Ohè! Chi vidu? Agneddi d’‘i me’ grutti, ‘mpidicati? e cannistri di caciu? E tu vicchiazzu tignusu ccà, cu ti sfasciò la facci a cazzuttuna?». E un piccolo saggio di variazioni glottologiche, di diversi registri linguistici di una semantica e fonetica frastagliata e unica nelle sue complessità di significati. E un invito ai lettori a leggere tutto intero il testo e alla compagnia dei Vespri di farci un pensierino. Altro che invenzione prima del celebre poliziotto che indagava su quel “pasticciaccio brutto di via Merulana” con il suo poliglottismo da sbirru popolano. Qui l’invenzione eccezionale riguarda la sintassi e la semantica di una stessa lingua, il siciliano, nelle sue varianti topografiche e gergali, nei suoi ritmi e sonorità fonetiche e dimostra la competenza dello scrittore che non per niente aveva svolto una tesi sul dialetto girgentino. Era l’ambigua passione dell’autore che scriverà contro gli stereotipi del sicilianismo degli attori, il «manifatturare una Sicilia d’importazione. Quella, per intenderci, del sole ardente, del sangue caldo, del coltello facile, dell’onore macchiato da lavare col sangue. Quella Sicilia da carretto siciliano o da opera dei pupi che gli è lontanissima, addirittura estranea» (“Teatro dialettale?” in Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali, 31 gennaio 1909) fino a “Dialettalità” (in Cronache d’attualità, agosto-ottobre 1921), «come unico e vero idioma, vale a dire come essenziale proprietà d’espressione». Altro dalla sommaria condanna sciasciana di facciata della “sicilitudine”, lucrando su mafia e lupara.Una menzione. Vincenzo Pirrotta per ultimo l’ha interpretata e rivisitata con acume e serietà, con una volontà di rendere i diversi registri linguistici che caratterizzano le tipologie caratteriali dei personaggi, con i diversi timbri musicali, la religiosità dei santi e il folklore locale: «All’inizio ho inventato le lamentazioni dei satiri, che sono le voci dei fedeli impersonanti il compianto della Madonna, e nel mezzo dell’ eccitazione ho immesso una “falloforia”, un inno alla forza del fallo, che ricorre quando Ulisse dona il vino a Sileno, il capo dei satiri, che verrà sodomizzato da un plotone di verghe. Poi ho forgiato con le mie mani la narrazione del pasto antropofago che il Ciclope fa alludendo ai compagni di Ulisse». Sono mondi diversi che attendono ancora nelle proprie eterne e travolgenti migrazioni e contatti una loro integrazione o ricambio culturale, i locali indigeni, gli inurbati, le dolorose invasioni di alloglotti. Speriamo mai una razzistica assimilazione, inumana e degna di dominatori con gli schiavi. Quella che tanti siculi e veneti e napoletani hanno subito nella Grande Mela di inizio Novecento. Quelli che nascosero la loro esistenza ed identità, tanti moderni Calipso, che storpiarono nomi ed ethnos.

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