La Casa Italiana a New York

(Carmelo Fucarino)

Fu un amore a prima vista in quel lontano maggio 2007, quando si realizzò la scommessa per la presentazione di Stratigrafia della storia di Prizzi ai miei concittadini di New York, per la quale Antonino Giappina titolò “L’onore di Prizzi” su America Oggi. E fu il ridimensionamento di quell’idea di gangster e cow boy, ma soprattutto di egemonia e di colonizzazione mondiale degli USA. Certo, oggi gli States sono tornati all’ideologia di potenza egemone e ancor più conservatrice della razza con i decreti di America über alles del nuovo presidente, un passo indietro verso selezioni che ricordano le umilianti discriminazioni di Ellis Island. Ma non è stata la New York nella quale ha stravinto le recenti elezioni di governatore Andrew Como, dinastia italo—americana, sull’attrice Cynthia Nixon che si era illusa della popolarità di Miranda come star della popolare e dissacratoria teleserie Sex and the City. Tanti compaesani si raccolsero in quella sala del Jolly Hotel, allora ancora italiano, alla presenza della famiglia Vallone che aveva avuto in Peter s. il city’s first Speaker of the City Council dal 1986 al 2002 e nei figli Peter j. e Paul i rappresentanti di Queens nel Consiglio comunale della City. Americani di Prizzi che ormai avevano dimenticato il dialetto e alcuni dei quali si incontravano per la prima volta. Fu in quell’atmosfera di entusiasmo e di eccitazione che conobbi Barbara Faedda, allora vice-direttrice della Columbia Casa Italiana e ora associate director of the Italian Academy for Advanced Studies at Columbia. Quel viaggio in taxi e la passeggiata lungo Amsterdam Street, l’atrio della Columbia e di fronte, oltre il sottopassaggio, l’entrata della Casa Italia, in quel sontuoso palazzo la cui facciata si trovava fuori posto in quel contesto di palazzi amorfi, richiamo e allusione di palazzi rinascimentali d’Italia. E l’accoglienza di Barbara, l’ospitalità di un italiano all’estero e per di più di origine sarda. E la visita al teatro e alla biblioteca ove, da allora, trovano un posticino i libri miei e di Rosa Maria Ponte. Fu una giornata di stupore e di gioia nel verificare di persona la grandezza della cultura italiana in America, unica nazione ad avere una propria dependance, una sezione nella prestigiosa Columbia University. Si può pertanto immaginare il mio stupore nel ricevere all’indirizzo di Prizzi un plico della Italian Academy. Frastornato dal mittente non riuscii a trovare i collegamenti. Poi una copertina From Da Ponte to the Casa Italiana e sotto Barbara Faedda (edizione Columbia University Press. New York, 2017) e la gioia di immergermi in quel luogo sacro rievocato dall’immagine di copertina. Ho letto tutto di un fiato le 89 pagine e scoprii  tutto un passato che mi era sfuggito in quelle visite che si ripeterono sempre negli altri incontri con la City. La storia della gloriosa Casa Italiana della quale io ero stato speciale visitatore si incrociava con mie esperienze culturali, il corso di biblioteconomia con la ricerca su La voce (1908-1916) di Giuseppe Prezzolini e di quel Giovanni Papini che mi aveva intrigato con il suo Il diavolo del 1953. Ma era tutto un mondo nuovo che mi si dispiegava dalle ricerche di Barbara, sorpresa su sorpresa di uomini e vicende. I sogni progettuali dei giovani del Circolo italiano del 1911, la posa della pietra angolare nell’agosto del 1926 e la solenne inaugurazione alla presenza del Nobel per la fisica del 1909 Guglielmo Marconi il 12 ottobre Columbus Day del 1927. Queste sono semplici notazioni storiche. Quello che più mi ha coinvolto nel saggio è stata la collocazione nel contesto, la piena affermazione dell’era fascista, le compromissioni di tanti notabili e impresari italo-americani, l’ambigua posizione di Prezzolini, amico di Mussolini, ma che si autoproclamava semplice promotore di cultura nella Casa, scissione che tenne sempre a precisare, la coscienza che si voleva liberare da un peccato che non era di poco conto. Poi le prime defezioni nonostante le pressioni del partito fascista americano dopo l’aggressione all’Etiopia. Che altro potrei dire in così poco spazio? Leggete il saggio, è una ricerca accurata e documentata da 19 pagine di note e bibliografia. Vi scoprirete uno strabiliante spaccato della cultura italiana a New York a partire dallo strabiliante avventuriero Da Ponte, scrittore e promotore di cultura con la sua libreria.

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