LA BOHÈME SECONDO TRADIZIONE E BELCANTO
(Salvatore Aiello)
La Stagione 2018 del Massimo si è conclusa, sotto le feste natalizie, con La Bohème opera di forte richiamo per le motivazioni che continuano a fare presa sui pubblici di tutto il mondo, in pieno contrasto con quanto la critica ebbe a dire alla prima nel 1896 a Torino : “Bohème opera mancata, non farà giro” invece Nappi, de La Perseveranza, asserì: “Per l’eleganza della fattura, per la vivacità della musica colonna sonora di episodi appassionati, l’opera resterà ricercatissima, prezioso documento della nostra arte”. La Bohème è opera di giovani dalle vite tumultuose con fragili sentimenti talvolta corrosi dalla gelosia e di solidi legami di amicizia: “Che gelida manina”, “Sì mi chiamano Mimì”, “O soave fanciulla”, “Donde lieta uscì”, “Dunque è propria finita”, “Vecchia zimarra”, “Sono andati fingevo di dormire” sono i momenti dove la musica dà spazio ai sogni e ai fallimenti dei giovani bohemiens che finiscono col dover salutare la giovinezza che svanisce e prendere coscienza del disincanto. A soli tre anni di distanza l’opera è stata riproposta con ben undici rappresentazioni sold out conservando lo stesso allestimento del 2015 con le belle scene di ispirazione liberty e gli adeguati costumi di Francesco Zito, le appropriate luci di Bruno Ciulli con la tradizionale e funzionale regia di Mario Pontiggia ripresa da Angelica Dettori; tradizionale nel senso del rispetto dell’autore e del periodo in cui l’azione si svolge con raffinata messinscena. Nel secondo atto si coglieva l’agile movimento delle numerose masse in cui agiva con efficacia il coro delle voci bianche istruito da Salvatore Punturo, mentre Piero Monti dava risalto, attraverso il coro del Teatro, a momenti di spensierati slanci.
L’esecuzione quindi appariva bella sia sul piano visivo sia per la parte musicale che in Daniel Oren trovava un abile, trascinante concertatore intento a captare e restituire colori, sfumature e gli afflati lirici della partitura. Nel direttore pulsava la vita e l’amore per la giovinezza che veniva esaltata anche nei momenti più tragici e l’orchestra cantava con lui con vibranti espansioni liriche in assoluto rapporto col palcoscenico ricavando da ogni esecutore emozioni e intenzioni di rara efficacia.
La giovane fioraia era Valeria Sepe, in sostituzione di Marina Rebeka, riconfermava fascino e credibilità a tre anni dal suo debutto a Palermo nella scorsa edizione; si faceva apprezzare per una vocalità squillante e timbrata, tecnica salda offrendo una resa belcantistica come quella data da Matthew Polenzani che si è imposto per timbro prettamente lirico ma con screziature che guardavano alle emissioni dei tenori di grazia, generoso nei momenti del fervido innamorato come pure nel disperato finale.
Jessica Nuccio, nei panni di Musetta, sottratta al ruolo di soubrette, sciolta scenicamente e in perfetta consonanza col ruolo, si faceva notare per una voce fresca, luminosa e tecnicamente corretta. In grande spolvero il Marcello di Vincenzo Taormina, esuberante scenicamente e vocalmente per pienezza di suono e calore espressivo, sicuro per la frequentazione del ruolo vissuto qui con buona esperienza. Christian Senn era uno Schaunard elegante per fraseggio morbido e incisivo e con lui il bravo Colline di Marko Mimica che ben si inseriva nel quartetto. Completavano il cast con professionalità Angelo Nardinocchi (Benoit). Pietro Luppina (Parpignol), Giuseppe Toia (Sergente), Gaetano Triscari (Un doganiere). Una bella serata all’Opera.