IL GIOCO DI AZZARDO

(Francesco Paolo Rivera *)

… “Jiccàmulu nn’a ciumara” … (1) era una battuta scherzosa nei confronti di coloro che guardavano altri giocare a carte, ma non giocavano … non si doveva andare in una sala da gioco per curiosità … chi non sentiva la passione per il gioco  doveva tenersi lontano dal tavolo da gioco ! Nella Palermo del XVII secolo nell’elenco delle Maestranze compariva, per la prima volta, il mestiere di “cartaro”, che era colui che fabbricava le carte da gioco e se tale corporazione era stata prevista nella tabella delle Maestranze, il numero dei maestri cartari doveva essere sicuramente numeroso e se i fabbricanti di carte da gioco erano numerosi, erano altrettanto numerosi i giocatori. Il gioco ha sempre posseduto un fascino morboso, molti abbandonavano ogni loro interesse avanti all’impegno per il gioco. Certo il gioco delle carte era un impegno dei nobili e dei ricchi, i quali spesso passavano lungo tempo al tavolo da gioco. Un bando datato 18 settembre 1785, imponeva la “gabella” (un tributo) per le carte da gioco. Il Vicerè, i Pretori e i signori dell’alta società, quando organizzavano i solenni ricevimenti nei loro fastosi palazzi, non dimenticavano mai di “fare il tavolino” … serviva per passare il tempo e … per mettere in moto la borsa. La calabrisella, il tressetti e la primiera erano i passatempi preferiti, ma anche la bassetta (2) che veniva anche giocata dalla signore e il biribissi (3). Trattandosi di giochi pericolosi il Governo li bandìva sempre e vietava sia che si giocassero che si assistesse al gioco. Giochi proibiti erano la bassetta, il biribisso, la primiera, il boffo, lo stopo, lo scassa quindici, il trenta e quaranta, la carletta ed altri, giochi leciti erano il tresette, il riversino, il picchetto, il ganellino ed altri ancora, che erano tollerati se giocati “nelle case de’ particolari, nelle botteghe dei mercadanti, nei caffè, nelle botteghe dei barbieri e di altri artigiani.” Il Vicerè Domenico Caracciolo tentò in tutte le maniere di porre freno all’abitudine del gioco di azzardo, rispolverando le varie ordinanze emesse dai suoi predecessori e emanando, in data 10 gennaio 1785, un Bando e Comandamento d’ordine che venne letto in tutte le piazze della città, … ma fu sempre fiato sprecato, anche lui non riuscì nel suo impegno, tanto che dovette ammettere che a Palermo il giuoco (4) “funesta origine delle maggiori enormità …;” tutti siegono perdutamente nella istessa ostinazione, non curando neppure la propria rovina, né lo scompiglio e desolazione delle proprie famiglie.” Giovanni Meli si interessò del fenomeno, commentandolo con la sua arguta satira:

“E ddà si vidi cadiri dall’altu

un suldatu senz’arma, e l’autru resta

cu l’occhi bianchi e lustri comu smaltu,

n’autru di stizza e collira si ’mpesta,

e nautru cu la sorti ‘ntra lu pugnu

va a tuccare lu cielu cu la testa.

La maggior parte rusica un cutugnu,

pirchi si senti supra l’anca dritta

di lu cuntrariu sò lu rastu (il segno) e l’ugnu.”

Nessuno pensava a nascondersi, nessuno faceva mistero della loro trasgressione, neppure avanti a coloro, estranei, che andavano ad assistere allo sperpero che si faceva del denaro, Malgrado il divieto da Parte del Governo, l’idea di potere guadagnare in un sol colpo anche sessantaquattro volte la somma puntata invogliava sempre di più i giocatori di biribissi. I giochi leciti (gli scacchi, introdotti dal Vicerè Fogliani e i tarocchi introdotti dal Vicerè Caetani di Sernoneta) non erano innocui. Un visitatore straniero riferisce che dopo le nove pomeridiane, mentre le graziose ed eleganti dame si riunivano nei salotti, occupate da balli, musica, passatempi ordinari, i mariti, i fratelli, gli zii (insomma gli uomini) si riunivano per giocare … e molti perdevano ingenti somme al gioco … “il primo piacere della vita è quello di guadagnare al gioco, il secondo, quello di perdere!! La cronaca cittadina riferisce che il 2 marzo 1798, una Principessa palermitana tra le più illustri, si tolse la vita, dopo avere dilapidato al tavolo da gioco sia il suo patrimonio che quello del marito, lo stesso avvenne al patrizio Giuseppe Chacon y Narvaez (il cognome sicilianizzato era sicuramente Iacono) nel 1799 … il debito di gioco era un debito di onore … le somme perdute andavano pagate a tutti i costi! I suicidi, a Palermo, verso la fine del settecento, probabilmente anche per timore religioso o per la pubblica avversione a tali eccessi, non erano numerosi, circa due o tre per anno, che in confronto con quelli di altri Stati europei, comprovavano che non erano radicati nella cultura siciliana. Vale la pena raccontare questo episodio: un tale, rovinato dal gioco, vantava un vecchio credito nei confronti di un Principe palermitano che, malgrado le richieste, non aveva mai voluto rimborsare il suo debito. Volendo mettere a frutto tale consuetudine per rientrare in possesso del suo credito, andò a cercare il suo debitore e, con aria misteriosa e carica di disperazione, gli disse “Eccellenza, tentato dal mio maligno genio, ho giocato e perduto dugent’onze. Io non ho come pagarle … vengo da Vostra eccellenza non a riscuotere il mio credito. ma ad implorare un aiuto …! Il Principe, con animo del vero giocatore, trasse da uno scrigno cinquecento scudi che consegnò al creditore … “caro mio, il denaro che si perde al gioco è denaro sacro e si deve pagare … ecco le dugent’onze; ma guardatevi bene d’ora innanzi dal giocare più!

…..

* Lions Club Milano Galleria – distretto 108 Ib-4 – matr. 434120

  1.  pare che la frase sia nata dal fatto che uno dei facchini che trasportavano a spalle, nei giorni di pioggia coloro che dovevano attraversare i punti allagati della città (i c.d. marangoni), una notte traghettasse alcune persone che venivano da aver giocato, e che avendo saputo dall’ultimo di essi che non era andato a giocare ma a veder giocare, lo abbia lasciato cadere nella fossa d’acqua piovana … perchè “non meritava nessun riguardo !”;
  2. nato nel XVII secolo, il gioco era molto semplice ma abbastanza pericoloso: si giocava con 52 carte per tre persone e un mazziere che distribuiva due carte per giocatore, il quale puntava sulle carte coperte, il banchiere scopriva le sue due carte (una vincente per lui e una per gli avversari) pagava la posta agli avversari se avevano le carte vincenti e ritirava la posta degli avversari se le loro carte erano perdenti;

3. antenato della roulette, il tavoliere (il banco) distribuiva 36 figure ai giocatori i quali puntavano su una figura, il banchiere estraeva da un sacchetto una pallina (oliva) che conteneva un biglietto con varie figure, il giocatore che aveva puntato sulla figura estratta vinceva la posta moltiplicata per tante volte secondo l’uso di quel tavolo (fino a 64 volte!);

4.   è corretto denominarlo “gioco” dal latino “iocus” ma all’epoca dei fatti si usava la parola “giuoco”.

 

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