FALSTAFF O DELLA RISATA FINALE

(Carmelo Fucarino)

Dipinto di Eduard von Grützner

È pura coincidenza o un parallelismo cercato e procurato? Le allegre comari di Windsor si sono divertite al Teatro Libero di Palermo giovedì 20 e lo faranno fino al 22. Certo, l’idea fu di Shakespeare, ma Edoardo Erba e Serena Sinigaglia ne hanno fatto un irrispettoso ironico pot-pourri di azione musica canto, razziati in parte a Verdi. Cimento ardimentoso di Atir Teatro – Milano, in collaborazione con la Fondazione Teatro di Napoli e del Teatro Bellini. Ciò in quanto si accavalla con la realizzazione, dal giorno 21 al teatro Massimo di Palermo, dell’opera di Giuseppe Verdi, Falstaff, che espresse un momento significativo e paradigmatico per la vita e l’attività artistica del maestro quasi ottantenne. Il suo Falstaff fu rappresentato alla prima a Milano il 9 febbraio 1893 in un particolare calendario della Scala, la stagione del Carnevale e Quaresima, divisione in stagioni messa in atto dal 1817 ed eliminata nel 1921, e dedicata alle opere serie, seguita dal veglione del sabato grasso. Le altre brevi stagioni di Primavera, Estate ed Autunno erano dedicate all’opera buffa, alla commedia e ai balli, in funzione delle disponibilità dell’impresario e delle richieste del pubblico. Ed è questa un’altra scelta curiosa: il carnevale del 2020 cade il 9-25 febbraio. L’opera, dopo un’affollata coda all’entrata, ottenne un trionfo, sedici uscite dell’autore durante i tre atti e lunghissimi applausi che proseguirono fino all’albergo, ove fu costretto ad affacciarsi al balcone. Ebbe la presenza di un parterre di personaggi eccellenti, la Principessa Letizia Bonaparte, Giosuè Carducci, Giuseppe Giacosa, Giovanni Boldini, Pietro Mascagni e Giacomo Puccini che appena il 1° febbraio aveva presentato al Regio di Torino Manon Lescaut, il teatro del futuro. Essa aprì ancora le prime della Scala nel 1921, nel 1936, nel 1980. Pur essendo un’opera leggera, indefinita tra commedia ed opera buffa, è comparsa per più di 34 stagioni e più di 210 recite. Arturo Toscanini la diresse a Busseto nel 1913 e nel 1926 e ne fece una memorabile registrazione con il baritono Giuseppe Valdengo. E fu l’ultima opera di Verdi prima della sua morte avvenuta il 27 gennaio 1901, nel deserto lasciato dai tanti amici che lo precedettero e nel 1897 dall’amata moglie Giuseppina. L’altra magica coincidenza di questa stagione del Massimo è la ripresa della regia realizzata nel 2013 per il Petruzzelli di Bari dal titanico e sorprendente mago della scena, Luca Ronconi, che ci ha lasciato cinque anni fa proprio il 21 febbraio 2015. Di essa rimangono i tre teli segnati dalla polvere del tempo e le macchine teatrali (le “macchine celibi”, il velocipede per le “gaie” e la locomotiva per i mariti) che riprendevano, sincronizzandolo anche nei costumi, proprio l’anno della  messinscena verdiana. Io, ancora sbalordito, ne ricordo di Ronconi quello straordinario Orlando furioso, adattato da Edoardo Sanguineti intorno ad alcuni personaggi e nuclei narrativi, che ha rivoluzionato con la strabiliante messinscena il teatro di tutti i tempi, un teatro globale che invase in uno spettacolo-festa chiese e piazze e diventò uno dei simboli della rivoluzione teatrale di quegli anni. La prima al glorioso Festival dei Due Mondi di Spoleto, inventato e diretto dall’ambizioso e bravo maestro Gian Carlo Menotti, nella chiesa di San Niccolò il 4 luglio 1969, si osservi l’anno delle nostre speranze giovanili. Confermò l’arte di Edmonda Aldini e lanciò Placido e la Melato in un cast faraonico. Dichiarò in una intervista: «Ho lavorato sul carattere dei personaggi e la mutevolezza dei loro rapporti, a fronte di un racconto tutt’altro che lineare… Ho preferito lavorare sul personaggio di Falstaff: un vecchio ubriacone e ridicolo, d’accordo, ma al tempo stesso un ribelle, uno spirito anarchico. Ho voluto porre l’accento sull’interessante rapporto, all’interno della commedia, fra un ex aristocratico e un mondo di parvenu»

L’Ippogrifo a Spoleto

Foto di scena

Altro elemento fuori dal comune, oltre alla presenza del maestro di risonanza mondiale, Nicola Alaimo che porta nella sua città il successo dell’opera, la brigata palermitana delle comari, Roberta Mantegna, Jessica Nuccio e Marianna Pizzolato, palermitano anche l’innamorato Fenton-Giorgio Misseri. Non strabilia più di tanto l’approdo finalmente a Palermo, dopo i successi alla Scala, a Berna, a New York del “vero” Falstaff, Nicola Alaimo, baritono dalla voce duttile e potente, uno dei tanti della sua famiglia di artisti, a partire dalla nonna organista e mezzosoprano, alla sorella corista allo zio Simone basso-baritono. Per la parte è l’unico a livello mondiale e il top, è ormai Falstaff. Ne è consapevole lui stesso, se si autodefinisce: “Falstaff sta ad Alaimo come Alaimo sta a Falstaff”. Naturalmente la bacchetta magica e la sua danza, la musica orchestrata da tutto il suo corpo, dita, mani, braccia, capo, bocca, gambe, occhi. Daniel Oren straordinario, al quale risponde magistralmente l’orchestra. Ancora un plauso a Francesco Giambrone che prosegue le scelte di prestigio a seguire l’indimenticabile Wagner di apertura. Per Verdi l’opera voleva essere la spavalda beffa alla morte con la tragedia dell’uomo agghindato da damerino e al teatro fin de siècle, al quale aveva dedicato una vita. Trovò la complicità di quel demonio “scapigliato” di Arrigo Boito, amico a scatti alternati di Emilio Praga, quello del conturbante polimetro horror Re Orso e amante della Duse, anche lui musicista e autore del terribile Mefistofele, tratto dal Faust di Goethe; dato alla Scala nel 1868, moderno tanto da ottenere un micidiale fiasco, da fargli abbandonare le scene con l’accusa di essere troppo wagneriano. In effetti continuò a lavorare per anni al progetto di un Nerone che avrebbe avuto il successo post mortem nel 1924, integrato e orchestrato da Arturo Toscanini. Nel Falstaff , da lui definita “commedia lirica in tre atti”, ripartiti in due quadri per ciascuno, Boito seppe creare con un originale collage un personaggio nuovo per il teatro lirico, un po’ barbiere e un po’ don Giovanni, un don Chisciotte con il suo Sancho Panza, cavaliere grasso e vanitoso, ben miscelando il sir John Falstaff di Shakespeare, amante di cibo, bevande e donne, burlesco e bugiardo salottiero di Le allegre comari con quello di Enrico IV parte I e II. Il magico sodalizio dei due musicisti era iniziato nel 1887 con il capolavoro Otello, altro cavallo di battaglia del bardo inglese, dopo la decennale connivenza con Temistocle Solera iniziata nel 1839, in una intermittente bigamia condivisa dal 1844 con Francesco Maria Piave. Era un nuovo corso della vita e dell’arte verdiana, dopo il lungo silenzio durato dal 1871, quando il 24 dicembre aveva celebrato l’apertura del canale di Suez con Aida al Teatro chediviale del Cairo, appena ristrutturato dopo il rovinoso incendio. E fu l’epilogo del maestro divenuto idolo della nuova Italia, dopo le invenzioni simbologiche del cognome (“Vittorio Emanuele Re d’Italia”) e l’incanto di Va pensiero, da sempre riproposto come inno nazionale e sempre mancato a favore dell’”elmo di Scipio”, più battagliero per un mondo di guerre. In questa ultima prova, che si apre con una sonata e si chiude con una “fuga buffa”, tutto diviene spettacolo e gioco. L’amore che riecheggia per tutto la vicenda parallela nella formula di Boccaccio: «Bocca basciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna.» (Decameron, giornata II, novella VII). D’altronde il momento clou dell’azione è chiaramente delineata:

 

«Fra poco s’incomincia la commedia.
Gaie comari di Windsor! é l’ora!
L’ora di alzar la risata sonora!
L’alta risata che scoppia, che scherza,
Che sfolgora, armata
Di dardi e di sferza!» (Atto II, parte II).

E l’infelice cavalier finito nell’estrema irrisione nel cesto da bucato, rovesciato
«Dalla finestra nell’acqua del fosso..
Là! Presso alle giuncaie
Davanti al crocchio delle lavandaie»

Scandito dal Patatrac! generale.

Nel cesto da biancheria

Era il pirotecnico gioco finale aperto da quella danza della regina delle fate su due piani spaziali, il lettone sfatto e la quercia dalle radici capovolte, il magico serto sul capo (il ramo d’oro o vischio della Sibilla cumana o di James Frazer?) con quegli elfi che riecheggia nella magia l’altro capolavoro shakespeariano, il Sogno di una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Dream), descritta dalla celeberrima romanza di Nannetta:

Sul fil d’un soffio etesio
Scorrete, agili larve;
Fra i rami un baglior cesio
D’alba lunare apparve.
Danzate! e il passo blando
Misuri un blando suon.
Le magiche accoppiando
Carole alla canzon.»

 

L’ultima scena, con la quale si chiude il sipario, quella tragica fuga, intonata da tutti, con i piedi penzoloni dal proscenio:

«Tutto nel mondo è burla.
L’uom è nato burlone,
La fede in cor gli ciurla,
Gli ciurla la ragione.
Tutti gabbati! Irride
L’un l’altro ogni mortal.
Ma ride ben chi ride
La risata final».

 

Sembra la battuta finale di una tragedia di Euripide in cui si stigmatizzava l’enigma della vita e la burla della sorte e degli dei. Lasciamo agli psicoanalisti le interpretazioni sociologiche della cattiveria e della vendetta della società ottocentesca che stentava a morire, la malinconia della rivoluzione industriale incalzante.

Nicola Alaimo-Falstaff

L’ultima scena, con la quale si chiude il sipario, quella tragica fuga, intonata da tutti, con i piedi penzoloni dal proscenio:

«Tutto nel mondo è burla.
L’uom è nato burlone,
La fede in cor gli ciurla,
Gli ciurla la ragione.
Tutti gabbati! Irride
L’un l’altro ogni mortal.
Ma ride ben chi ride
La risata final».

Sembra la battuta finale di una tragedia di Euripide in cui si stigmatizzava l’enigma della vita e la burla della sorte e degli dei. Lasciamo agli psicoanalisti le interpretazioni sociologiche della cattiveria e della vendetta della società ottocentesca che stentava a morire, la malinconia della rivoluzione industriale incalzante.

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