LA STORIA È BELLA, PERCHÉ NON È MAESTRA DI VITA

(Carmelo  Fucarino)

«La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia.». Così Manzoni avvia il disastro colposo al cap. xxxi per far conoscere «un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.». Certo i famosi terribili Lanzichenecchi del Sacro Romano Impero, “servitori della Patria”. «Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi». Si andava da Lecco, epicentro, poi Milano, che se ne appropriò il nome, ma era la sovrana capitale, e il Bergamasco (mi dispiace per l’onore odierno alla Bergamasca). C’era stata recente la peste di San Carlo. Il protofisico Lodovico Settala segnalò, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità il primo focolaio a Chiuso (Cologno?) in territorio di Lecco. «Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino». Ad altre notizie da Lecco e Bellano il tribunale si contenta di mandare un commissario, che prende un medico a Como e «tutt’e due, “o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che era…effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi… Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace». E così ebbe inizio la tragedia. Allora, quando il barbiere era anche odontoiatra e non c’erano gli scienziati odierni che tutto sanno e di tutto pontificano dichiarando con sufficienza il tutto e disdicendo con il contrario di tutto. Ah! L’uomo fragile, trascurato e poi atterrito davanti all’epidemie. Sempre oscure. Tranne che volute dal dio Apollo come nella Tebe di Edipo o nell’Arcangelo cattolico punitore che rotea la sua spada sul cielo di Orano. Allora il solito tribunale spedisce due delegati, quando non c’era più bisogno di prove. La presenza del bacillo Yersinia pestis, zoonosi come il nostro, capri espiatori pipistrelli o pangolini, chi lo sa, non aveva più bisogno di prove. Il 30 ottobre il solito tribunale “si dispose” «a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s’era manifestato; “et mentre si compilaua la grida”, ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a’ gabellieri. Il 14 novembre arrivati i ragguagli sulla estesa diffusione, finalmente il tribunale, manda i delegati dal governatore, “il celebre Ambrogio Spinola”. E questi? «V’andarono, e riportarono: aver lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas.». «Due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, [badate alle date] emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d’un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla». Ma se restava il biasimo e lo stupore per la sua condotta, «ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All’arrivo di quelle nuove de’ paesi che n’erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla… sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato.». «Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano. Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell’osservare i princìpi d’una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all’incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.». Anche allora il numero uno: «Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt’e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più.». «Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati.». E poi i commercianti, allora che non ricevevano sussidi ad libitum con i soldi dei soliti contribuenti: siccome il tribunale «ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico, “della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe”, dice il Tadino; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi… Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici.». Oggi non ci son più assalti ai forni, ma l’assalto alla diligenza dello Stato con indiscriminate beneficenze. Tutti ormai sono donatori, a chi pare e a chi alza la voce. Alcune associazioni fanno benemerenze ai loro aderenti, altre si proclamano benefattori di determinati gruppi. Sì, esclusi i pensionati che non meritano il dono della mascherina, almeno. Così fu allora, ma c’era un governatore di una potenza straniera e i medici, poveretti, non sapevano di Ippocrate e di Galeno, non era nata Big Pharma di sintesi chimiche, c’erano erboristerie. Ancora non c’era l’acido del salice prodotto ora di sintesi chimica. Qui mi fermo e rimando alla prossima puntata. Riflettete, gente, la scienza non c’entra, è l’uomo con la sua leggerezza, tornaconto, furbizia e cattiveria. Le leggi sono fatte sempre a favore di qualcuno, perciò tutti con questo alibi le eludono. Tanta tragedia per una molecola polimerica, detta in sigla a moda americana, RNA, che non riuscite a debellare e si trasforma facendovi maramau, grandi luminari che mi avete promesso splendida salute e vita eterna. E poi l’assurdo e il mistero.

«State contenti, umana gente, al quia;
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria». (Dante, Purg. III, vv. 37-39).

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