LE MEMORIE DEL SOTTOSUOLO
Carmelo Fucarino
Panoramica di Naro
Ognuno di noi nasconde, in genere anche inconsciamente, tutto un mondo che si è andato man mano, attimo per attimo, respiro per respiro, stratificando fino a formare un nuovo universo interiore. Sono gli attimi che si vanno cumulando fino a diventare un tempo infinito. E ad un determinato momento della nostra vita scatta la molla e si sente il bisogno impellente di fare il punto dell’accumulo. E non ci sono età, almeno in questa società che consuma l’attimo già prima che si sia plasmato, ancora nel baleno dell’idea. Un tempo le autobiografie erano la sintesi completa di un percorso che si presupponeva vicino alla conclusione. È vero però che c’era un fermo immagine che si estrinsecava nel segreto inviolabile del diario. La vita che si andava vivendo, ma che si voleva imprimere per sempre. Nel massimo segreto, come estroversione terapeutica o come intimistica necessità di confessione. E non solo i diari delle signorine nascosti sotto il materasso, ma anche i Ricordi postumi di D’Azeglio. Così mi è capitato quando ho voluto fermare la giovinezza nel piccolo monumento alla mia mneme infantile con Il verde melograno. Il sottotitolo ne sviluppava l’impronta, Segni e simboli dell’infanzia ritrovata (Aracne editrice, Roma 2017). Ma certamente non mi sono fermato là e nel cassetto conservo un seguito che ne sviluppa le conseguenze da quella primigenia formazione, da quell’input che ha creato il giovane e poi l’uomo. In questo mio tragitto sono arrivato alla fede incrollabile del postulato “Madame Bovary c’est moi” e nella percezione di un nostro sottosuolo misterioso, se non uguale, simile a quello di Dostoevskij. E non mi riferisco solo alla poesia, illuminazione interiore, ma anche alla prosa narrativa e alla saggistica. Sono sciocchezze il postulato crociano dell’oggettività della storia, come il manifesto e le prove fallite dell’impersonalità dell’arte. Ogni nostra estrinsecazione è nata sempre dal groviglio della nostra formazione culturale e dal modo in cui l’abbiamo impressa a fuoco nella mente. Questo il prologo, mi scuso se lungo e soggettivo, al romanzo di Salvatore Nocera Bracco, che così chiaramente si definisce nel titolo, Rosa la sguattera, seguito dal non equivocabile “romanzo”. Egli nelle due postfazioni va ben oltre all’accumulo memoriale, ben oltre la memoria del ventre materno, e afferma, senza equivoci, le qualità della sua evocazione in una memoria ancestrale: «Certi luoghi ci abitano prima che noi nasciamo. È tutto inscritto nel nostro DNA, tutto predisposto in un futuro ancora da vivere ma già determinante il nostro passato, la nostra memoria da cui scaturisce la nostra origine e la nostra provenienza. Questi luoghi li abbiamo dentro, e potrebbe capitare di incontrarli fuori, in maniera del tutto inaspettata, improvvisa, da mozzare il fiato». Perciò il titolo che ho voluto dare a queste mie riflessioni, forse imprecise, sicuramente incomplete per la tirannia dello spazio e dell’attenzione, sulla ricerca e la rappresentazione narrativa di quelle lontane esperienze dell’autore. Per quanto altro occorre sapere sulla genesi del “romanzo” bastano le due chiose in coda. Sì, certamente, a giustificare la definizione retorica del genere letterario c’è l’esigenza affabulatoria, tutti gli espedienti che servono a rendere piacevole e avvincente lo sviluppo narrativo, ma in effetti neppure lo stesso narratore ci crede, sapendo che quello che sta narrando è il suo Bios, con la letteraria tentazione mistificatoria della Vigata di Camilleri, in quell’improbabile Darno, vocabolo estraneo alla toponomastica sicula. Che poi è lo stesso autore a rivelare il mistero e l’identità, la Naro della sua infanzia, incancellabile e perpetua nel profondo della sua anima, con strade e vanedde, chiese e palazzi e povere abitazioni. Così la Naro di un tempo indefinibile, ma pur esso marcato nel suo profondo ed esplicitato in personaggi ed atmosfere, in fatti incontrovertibili dell’immediato dopoguerra. È la società della morente borghesia agraria, in cui il vecchio, il jurnateri che attende l’ingaggio, si confonde con l’arrivo della macchina, dove le angherie del solito don Rodrigo o mastro don Gesualdo si vanno stemperando in una parodia, in un’ironica icona di un mondo in agonia, una macchietta che addirittura si fa sbeffeggiare. Ecco svelati senza finzioni il tempo e il luogo del cosiddetto romanzo. Perché non sono non-luoghi atemporali, ma esistenze che vivono le loro esperienze umane e si intrecciano in un ambiente chiuso, lontano dai contatti esterni, tempi in cui era un fatto eccezionale visitare da Naro Campobello di Licata, figuriamoci la capitale, l’immaginaria lontana Palermo. Qui vivono i personaggi della storia visti da un narratore che li descrive con la classica terza persona, ma che è presente ed evidente come soggetto scrittore. Come in tutte le società dei paesi diffusi di quel tempo, il centro è la chiesa parrocchiale, la Matrice, nella piazza con il suo parroco, e accanto la casa baronale, la più bella architettonicamente. E dire che Naro vanta un grandioso, immaginifico Castello Chiaramontano del qual non si fa cenno. Protagonista e centro focale è l’equivoca, misteriosa Rosa, concupita da tre balordi giovinastri, guappi del paese, lei simbolo di eccellenza di bellezza, loro sprovveduti ed incapaci abbordatori. Tutto vortica intorno a lei, quel magma di curiosità originalità diversità di un paese, dal padrone con arie da boss, riverito ed elargitore di posti, allo scemo banditore di saggezza che può dire impunemente tutto quello che vuole, che sa parlare solo il dialetto, una sua particolare lingua nella macroscopica diversità fonetica locale, al coro delle tre fanciulle spensierate e strane incantatrici a bordone come le Sirene, rappresentazione del mondo, locale ed esterno, ancora tre come perfetta rappresentazione simbolica di gruppo. C’è tutto un mondo che ruota intorno a questa fanciulla, figlia di una perpetua a tempo pieno, in una percezione di malsano e di arcano, che resta sospeso fino alla fine in una speranza salvifica. Ecco questa è la Naro della memoria, di anni che tutti abbiamo vissuto con le stesse esperienze e le stesse emozioni nella nostra gioventù, in ogni paesetto dell’interno della Sicilia, da nord a sud, ma che diventano in Nocera Bracco metafora della vita nel suo essere, esplicitata spesso in riflessioni che si sviluppano in idee di vita generale, sia sul piano socio-politico, sia etico e pedagogico. Naturalmente è una semplice lettura soggettiva, ognuno, soprattutto coloro che hanno vissuto le stesse esperienze del tracollo della società agricola in un paese della Sicilia, ancora fermo ai cosiddetti privilegi feudali, può ritrovarvi altri spunti, confrontarsi con le proprie esperienze. Sempre e comunque proficue.