VIVA ERCOLE!

Carmelo Fucarino

Ercole uccide il leone di Nemea

In un circolo di amici si dibatteva sulla vexata quaestio della programmazione vaccinale: vaccinare prima i vecchi o i giovani. A lanciare il sasso la convinzione che gli ultraottantenni ‘possono’, ‘debbano’ stare reclusi in casa, mentre è diritto dei giovani vivere la vita diurna e notturna. Ergo vacciniamoli prima, perché non interrompano movida e ricreazione stradale. La scuola? Figuriamoci! o di presenza o in DAD (l’era delle sigle, se non lo capite peggio per voi) suscita in genere lo stesso incurante interesse. Si gioca comunque con il cellulare, anche in classe. Per i pochi che vogliono realmente apprendere non cambia pertanto nulla. Gli altri pretendono ope legis solo il “pezzo di carta”. Perché ancora nel 2021 siamo ai tempi della scuola pubblica di Vespasiano o meglio di Teodosio. Siamo fermi ancora ai voti e al valore legale del titolo di studio. Il surreale è che non ci crede neppure il padrone per il quale si mantiene. Lui li ripassa sotto i suoi test. Nel godibile arengo dei pro-giovani, quasi unanimi, qualcuno ha pensato alla priorità dei vecchi: come cavie di vaccini a favore dei giovani. Alquanto cinismo, ma il tragico-comico sta nel masochismo: per questo si è propinato per prima a medici ed infermieri, per vedere che effetto che fa su coloro che dovrebbero poi sanare il tesoro dei giovani. Poi c’è l’altro piano di salvezza: sono addirittura il bancomat che permette ai giovani di spassarsela con le loro pensioni. Sono un capitale sociale. Non è sufficiente la vergogna del sussidio di cittadinanza (non ho capito cosa vuol dire premiare un cittadino inoperoso e sfaticato, senza impiegarlo in opere sociali utili). Perché oggi vive Apollo culturista che per sbaglio ammazza padre e madre, non il cadente Anchise portato sulle spalle del figlio o il saggio Laerte, e tanti vegliardi che salvarono tanti popoli antichi e moderni, non certo brutti, squallidi e cattivi. Per dire poi che il Senato (così ovunque in Occidente) che oggi si vuole aprire ai diciottenni si dice fondato da Romolo per gli ‘anziani” (46-60 anni, allora senes, ‘vecchi’ ), come la spartana Gherusia (da gheros, ‘vecchio’). Con un veloce esemplificare fra i secoli: Mosè guidò il suo popolo nel deserto del Sinai ad 80 anni, Michelangelo scolpì a 89 la Pietà Rondanini, Goethe compose il Faust ad 81 anni, Giuseppe Verdi ad 80 anni il Falstaff. Papa Giovanni aprì ad 80 anni il Concilio Vaticano II. Le società civili vivono come comunione di attività, nessuno è escluso e tutti sono indispensabili, dal fruttivendolo al luminare, dall’uomo maschio, alla donna femmina, senza esclusioni o eccellenza, giovani e vecchi siamo parte indissolubile di una societas (da socius, alleato e socio) civile. Trascrivo da Treccani sotto il nome: «ogni insieme di individui (uomini o animali) uniti da rapporti di varia natura e in cui si instaurano forme di cooperazione, collaborazione, divisione di compiti, che assicurano la sopravvivenza e la riproduzione dell’insieme stesso e dei suoi membri». Certo i Visigoti fissarono come indennizzo per l’omicidio di un uomo libero di oltre 65 anni 100 soldi, per uno dai 20 ai 50 anni oltre 300 soldi. Ma i Cristiani, tra Apologetica e Patristica, preoccupati di crearsi un Dio proprio tra scismi ed eresie, ignorarono il problema, un cenno solo di Agostino ai cicli della vita. Dal Medioevo in poi, ritenendo la vecchiaia semplice transito alla vita eterna, si limitarono a creare il monacus infirmarius e la medicina monastica, con strutture conventuali sanitarie, le tabernae medicorum (i nostri laici R.S.A., reclusori in attesa della morte). Resta la sapienza antica. Fra tanta angoscia per la vecchiaia espressa dai poeti elegiaci, tra il dileggio del vecchio don giovani nella commedia di Plauto e Terenzio e la mestizia dei poeti latini, già la voce del filosofo dell’edoné, della voluptas, Epicuro, in piena epoca di umanesimo ellenistico e di cosmopolitismo scriveva: «Non il giovane è felice, ma l’anziano che ha vissuto bene: poiché il giovane, nel pieno del vigore, è sempre in balia della sorte, mentre l’anziano è approdato alla vecchiaia come a un porto tranquillo». E lo stoico eclettico Seneca spiegava su durata e qualità della vita: «Mi chiedi quale sia lo spazio più lungo della vita? fino al vivere con saggezza. Chi perviene a quella tocca non solo il limite più lontano, ma il massimo. Quello si vanti pure con audacia e ringrazi gli dei ed imputi tra quelli a sé e alla natura ciò che è stato. A ragione infatti si attribuirà tale merito: ha restituito alla natura una vita migliore di quella che aveva ricevuto» (Epist. 93, 8). Era convinto che il nostro tempo a disposizione non è esiguo, ma lo dissipiamo e sperperiamo (1, 3, non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus), non abbiamo ricevuto una vita breve, ma ce la rendiamo (1, 4, non accipimus brevem vitam, sed fecimus). Ho conservato per ultimo degli antichi Cicerone che sulla vecchiaia scrisse addirittura un intero dialogo che purtroppo non fece scuola nell’era cristiana dell’elemosina, chiamata carità che in latino significava “amore”, dal greco chàris, “grazia”, da cui gratis, per semplice e puro amore, senza fini di salvare l’anima come ritengono certi cristiani. Fino al cinico do ut des del Manzoni passato attraverso il giansenismo fino agli ex-voto a Santa Rosalia per grazia ricevuta.

Cito semplicemente un passo del dialogo, ma invito a leggere l’intero capitolo (Cato maior. De senectude, VI, 15-17): «La vecchiaia  dunque ci distoglie dalle attività? Da quali? Forse da quelli che si fanno con la giovinezza e con il vigore fisico? Forse dunque non sono nulla, quelle che, pur in un corpo infermo, tuttavia si amministrano con la mente? […] Niente dunque riferiscono coloro che affermano che la vecchiaia non è versata alle attività. Simili sono a coloro che affermano che il nocchiero non faccia niente nel navigare, mentre alcuni salgono sugli alberi, altri corrono per le tolde, altri svuotano la sentina, mentre quello invece tenendo il timone siede quieto in poppa, non fa quello che fanno i giovani. Ma invero fa cose molto maggiori e migliori. Non per forze fisiche o celerità fisica si fanno le grandi cose, ma con il senno, il prestigio e la saggezza, delle quali non solo non suole privarci ma addirittura suole accrescere la vecchiaia. certamente, ma presta opera assai più essenziale e migliore. […] La gioventù pecca per eccessiva temerità; la prudenza appartiene ai vecchi.» E un posto a parte al moderno Arthur Schopenhauer, sintesi del pensiero occidentale da Platone all’illuminismo, passando per buddismo e induismo, il pessimista totale, nella brama di vita che è identica tra vecchi e giovani (Aforismi sulla saggezza del vivere in Parerga und Paralipomena I, 1851): «La vita è come una stoffa ricamata nella quale ciascuno nella prima metà dell’esistenza può osservare il diritto, nella seconda invece il rovescio; quest’ultimo non è così bello ma più istruttivo, perché ci fa vedere l’intreccio dei fili». È un aforisma abusato e citatissimo anche da parte dei tecnici della moda, ma ci rivela ancora oggi il senso profondo di questo vivere in cui si combattono all’ultimo sangue uomini che corrono tutti verso una stessa meta, prima o poi, senza esclusione di gender o ricchezza o ottima salute. Per tanti la soluzione soteriologica, per altri l’ataraxìa greca o braminica, la tranquillità dell’anima, per molti la pazza arroganza di essere ancora lontani dal guado. In Italia possediamo il record europeo, pensate circa due milioni di ultra ottantenni su una popolazione di sessanta milioni. A cosa è dovuta questa straordinaria longevità? Alla solita alimentazione mediterranea, al fisico o alla buona medicina. Perché sembrerebbe che sia una condizione negativa avere più longevi.

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