TUTTO CHIEDE SALVEZZA Romanzo di Daniele Mencarelli

Luigi Alviggi

Il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) è l’estremo rimedio che la società adotta per proteggersi contro chi minacci gravemente vita, affetti, interessi o altro, di sé o di altri, estranei o legati a lui da qualche rapporto. La persona sottoposta a TSO è costretta dalla legge a subire cure mediche anche pesanti per aiutarlo a superare la pericolosa fase mentale in corso. Il TSO, dopo l’approvazione di specifiche autorità mediche e civili, ha durata di una settimana, salvo necessità di proroghe inevitabili. Nel giugno 1994 il ventenne Daniele, dopo una devastante crisi di rabbia in famiglia, è costretto al ricovero in TSO. Il libro nasce dalla descrizione sofferta di questa esperienza. La narrazione è in prima persona, identificando il Daniele romanzato con il Daniele autore. Si ritroverà in uno stanzone di sei letti con altri quattro soggetti, persi nel proprio mondo privato che non ha voglia né capacità di condividere. I pazienti psichiatrici sono soggetti marginali, a volte di estrema sensibilità, che la violenza e i soprusi del mondo hanno spinto ai limiti estremi dai quali è davvero difficile rientrare senza un’enorme forza interna (inesistente, date le premesse) o, per i fortunati, il vitale supporto di una persona che si interessi molto a loro. Troviamo sette capitoli – uno per ciascun giorno di ricovero – che ci aprono le porte verso grovigli celati in fondo alla mente di tanti di noi. Daniele non è “cattivo”, è solo che “dentro” a volte sente agitarsi una sofferenza “cosmica”: il mondo intero pare poggiare sulle sue spalle… Nel reparto in cui finisce gli tocca di tutto… vite ridotte in pezzi da dolori, reali o figurati, e messe insieme dal caso in una stanza d’ospedale, luogo di sofferenza comune. C’è Madonnina che non sa dir altro che “Maria ho perso l’anima! Aiutami Madonnina mia!”; Alessandro, catatonico, che guarda un punto fisso nel muro e si avvicina alla vita solo quando il padre viene a imboccarlo; Gianluca che si crede e parla da donna, facendo il filo a tutti; Mario – l’anziano, ex maestro di scuola, il più “equilibrato” – che si distrae osservando il nido di un passero sul ramo di un albero attraverso il finestrone e mangia solo mele cotte passategli dai compagni di stanza; Giorgio, al quarto TSO dell’anno, il gigante arrivato il giorno dopo, che diventa violento in un attimo: ha subito da piccolo il trauma di perdere la madre e continua a farsi tagli sulla carne per quella sofferta perdita. Per caso una mattina festiva, attraverso la porta socchiusa nel muro divisorio dal reparto donne, rivede anche una ragazza, amica di anni addietro, segnata dalla falsità di un compagno comune, che lui e altri del gruppo hanno appoggiato insistendo con lei sul suo amore intenso, fatto del quale solo adesso scopre i terribili effetti del trauma subìto e dell’abbandono da parte dell’”innamorato ardente”, avvenuto poco dopo aver compiuto il fattaccio in danno di lei. Le è toccato, dunque, il peggio assoluto: restare inchiodata a quel passato che, tumore devastante, è cresciuto sempre più fino a invadere l’intero spazio mentale e privarla, ormai prigioniera, di ogni possibile via di fuga. L’amarezza per la cattiva azione, una ragazzata compiuta a cuor leggero, soltanto ora comincia a prendere corpo in Daniele che di rivelazioni di questo tipo non ha proprio bisogno. È come se la maturità l’investisse d’un colpo rivelandogli il vero volto di un atto che all’accadere può essere inteso come cosa da nulla ma, quando si è messi di fronte alle conseguenze, può divenire un torto colossale per chi l’ha sofferto. Solo ora a Daniele, di fronte agli effetti di quella falsità dichiarata senza darvi peso, sembra di diventare lucido, pur restando sull’uscio della padronanza dei suoi spazi mentali: “della vita, in questi primi vent’anni di praticantato, ho capito quasi niente”. Niente di strano, spesso il male fatto con atti superficiali si capisce con grande ritardo nella vita, non è affatto raro! Purché non finisca che a quaranta si è andati davvero poco oltre nel “capire”, e a sessanta non ci si riduca a tirare i remi in barca, come purtroppo accade a molti. La vita allora resta per sempre confinata in un mistero irrisolto e finisce con l’andare perduta! Forse nemmeno una nascita in situazioni diverse avrebbe potuto guidare il soggetto al progresso lungo l’impervio cammino: il problema maggiore non è di sicuro la struttura fisica ma quella mentale! La madre gli ricorda, per altri versi, al telefono dell’ospedale:«Esse’ uomini non significa scala’ le montagne, ma ave’ la consapevolezza che ogni gesto ha un valore, nel bene come nel male.»  La differenza presente è che nel reparto non è unico a combattere (o almeno a tentare di farlo) contro mali indefinibili! Una similitudine comune, il vedere se stessi riflessi nell’altro in una specie di specchio ideale, può forse aiutare a comprendersi meglio e a divenire maggiormente padroni di se stessi? Risposta davvero difficile. Ci sono troppe cose impossibili a farsi e a ottenersi in un ricovero psichiatrico – specie di sei pazienti in una piccola stanza tormentata da un caldo asfissiante -, moltiplicate dalla paura dei vigilanti per le tante situazioni che possono divenire incontrollabili. Fra le mancanze primarie la serenità – la medicina più importante – e il sonno, reso difficile dal silenzio rotto, giorno e notte, da urla, lamenti, incubi, frasi lanciate nel vuoto, aggressioni per futili motivi, e cento altre cose dannate. La solitudine è nemica invincibile, mai unica, perché da lei genera qualcosa di ancor peggiore, agghiacciante: lo squallore dominante nel profondo terrorizzante il malato più di tutto. Una terra sconfinata che, anche se la mente interessata riesce ad abbracciare in estensione, ignora come affrontare e domare. È quest’entità spaventosa la barriera incolmabile, pronta a nullificare ogni atto del naufrago troppo provato. Il soggetto psichicamente fragile non ha la capacità di scorgere il cammino per ridimensionarla, anche poco per volta, a un effetto molto più placato, come quello con cui convivono gli esseri umani “normali”. Il fatto che più colpisce è che Daniele non è un eremita che vive isolato in una sperduta grotta di montagna. No! È un giovane che, per esempio, ha ben presente il chitarrista dei Queen, richiamato alla mente da un identico compagno di stanza. Fa parte di un gruppo di “amici” che stanno insieme periodicamente, non si sa quanto per parlare e di che, magari piuttosto a cazzeggiare e, di sicuro a condividere pasticche, fumo, e altro di più incisivo nel filone. C’è un’amicizia, dunque, avanzata e solidificata e stupisce che il gruppo aggregato sia solo un accostarsi di solitudini (quasi) assolute, adatte, forse, a mutuare sesso? Raro sempre l’amore, ma certo ancor più in “confraternite” simili…  D’altro canto, se in un TSO capita che lo psichiatra a colloquio con il paziente, dopo avergli fatto una domanda, si addormenti beatamente al suono delle parole di chi sta di fronte e di lì a poco, mentre il soggetto smarrito continua a parlare, inizia addirittura a russare, capiamo bene che, a questo mondo, non c’è limite al peggio! Il fin troppo debole si ritrova “circondato” da medici indifferenti e “accudito” da infermieri sempre sul chi vive per l’imprevedibile che può celarsi dopo qualunque gesto normale! Aiuti inesistenti! “Chi obbliga quelli come lui a esercitare la professione medica? Dov’è finita la sua vocazione? Quella che gli ha fatto scegliere il mestiere del medico. Possono una lau­rea, la sopravvivenza economica, lo status sociale giustificare una simile infelicità? Perché l’infelice è lui, noi pazienti gli capitiamo sotto le mani al massimo per un’ora a seduta, ma è lui che deve stare con se stesso e la sua insoddisfazione giorno dopo giorno per tutta la vita.” “Bastava talmente poco. Bastava ascoltare, guardare negli occhi, concedere. Una volta, una sola volta. Invece non lo hanno fatto. Perché per loro non eravamo degni di essere ascoltati. Perchè i matti, i malati, vanno curati, mentre le parole, il dialogo, è merce riservata ai sani.” Le domande di Daniele, cadendo dentro di noi, sconvolgono, non avendo modo di contrastarle con risposte consistenti. È più del distacco, della sciatteria, è quasi l’odio che dà a volte l’impressione di affiorare nella controparte, esperta ma del tutto disinteressata a chi ha la disgrazia di trovarsi di fronte. Capita poi che la miglior ricetta personale può arrivare da un matto che ha dalla sua il beneficio dell’età, da Mario per esempio. L’anima buona sa indicare uno spiraglio, toccherà poi al soggetto schiuderlo per passarci attraverso e… andare oltre! «Non esiste un farmaco che ti farà guarire, o che su di te sarà efficace a vita. Ti ho già parlato di queste cose e me ne sono pentito, tu sei tanto giovane, pure troppo, ma quello che puoi trovare dai medici e dalla medicina è nel migliore dei casi un piccolo aiuto, il resto sei tu, il modo in cui vedi le cose, la forza con cui la vita ti arriva, negli anni capirai che non è tutto un male.» Sforzarsi di ottenere un obiettivo preciso è l’impresa più ardua per un disagiato mentale, ma il traguardo non è impossibile. Se si parte da un girone infernale nel quale si è precipitati, la volontà dovrebbe avere uno stimolo ancora più forte ad agire. Però le cose umane non corrono su binari definiti… Nella breve settimana accadrà di tutto: aggressione a medici e infermieri, omosessualità, caduta involontaria dalla finestra, malumori a non finire. È che in una mente malata tutto si confonde ed è difficile mantenere la distinzione tra concesso e vietato. Si afferma l’impulso del momento, ingigantito da qualche fantasma interno che si risveglia e stravolge, in una comprensione viziata della situazione, tutto ciò che vede intorno. Sull’incerto pianale della mente malata è sin troppo facile scivolare cadendo in malo modo, e travolgendo anche chi, del tutto estraneo, si trova a passare nelle vicinanze. “Mi piacerebbe dire a mia madre ciò che mi serve vera­mente, sempre la stessa cosa, da quando ho urlato il pri­mo vagito al mondo. Quello che voglio per tanto tem­po non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati, ho trascorso questi primi vent’anni di vita a studiare le parole migliori per descriverlo. E di parole ne ho usate tante, troppe, poi ho capito che dove­vo procedere in senso contrario, così, di giorno in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua. Un poco alla volta ho accorciato, potato, sino ad arrivare a una parola sola. Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte. Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?” Questo per Daniele Mencarelli (Roma, 1974) è il secondo romanzo “autobiografico” di un’annunciata trilogia. Inserito nel Premio Strega, ha vinto il Premio Strega Giovani 2020. Il primo libro, “La casa degli sguardi” (2018), è stato pluripremiato con un buon successo. Tratta di Daniele, un giovane poeta in crisi, che inizia a collaborare con l’Ospedale Psichiatrico Bambin Gesù di Roma. Attraverso i mille sguardi scambiati sul lavoro le tante domande interne si precisano e approfondiscono… ma arrivano anche delle risposte… una benedizione. L’Autore è anche poeta e giornalista. Il dono della scrittura può aiutare a ricostruire se stessi: a molti appare scontato ma non è affatto così! Anche a vent’anni ESSERE FELICI(!)è un’impresa da conquistare!                                                  Daniele Mencarelli: TUTTO CHIEDE SALVEZZA Mondadori, 2020 – pp. 200 – € 19,00

 

 

 

 

 

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