SIMBOLI E METAFORE NELLA MEDEA DI SIRACUSA FATTA RIFATTA E CONTRAFFATTA

Carmelo Fucarino

Già nella mitografia antica la vicenda della maga, regina della Colchide, la moderna “sciamana”, in patria traditrice del padre e omicida del fratello, madre poi che uccide i figli, come la gatta che divora i suoi gattini, aveva trovato infinite e variegate versioni. Oggi ricordiamo ancora La lunga notte di Medea di Corrado Alvaro del 1949, sul modello di Ovidio, e soprattutto la lettura filmica del 1969 di PPP con Maria Callas. Oltre alle moderne riscritture narrative di Toni Morrison e Liz Lochhead, non ultima la reinterpretazione deviante della narratrice tedesca Christa Wolf nel suo romanzo Medea. Stimmen (1996). Qui sono i crudeli cittadini di Corinto che per motivi di razzismo dopo il suicidio di Glauce accusano Medea del delitto e perciò ne uccidono i figli. Errando per il mondo, questa misconosciuta simbolo del mito matriarcale contro la razionalità patriarcale euripidea così si accommiata: «Curano che io possa essere chiamata infanticida anche presso i posteri. Per i quali cosa sarà mai tutto questo, in confronto all’orrore che gli si mostrerà quando si guarderanno indietro. Perché non c’è modo di correggerci». Cito ancora soltanto. Assieme al mito di Edipo, complici Aristotele e la Camerata de’ Bardi del 1573 per la perfezione dei tre tempi fino a Manzoni, ma soprattutto divulgatore Freud con la sua diceria dei complessi di radice mitografica greca, l’orrore supremo della vita umana, l’infanticidio dei figli (gli Artt. 576-577 CP italiano definiscono l’ambito più ampio e grave del “figlicidio”), ha attratto la narrazione globale e universale della tragedia dell’animo umano.

Tutto a partire, già come categoria del moderno gender, dalla versione euripidea del mito, la sua Medea (Μήδεια) che andò in scena il 431 a.C. alle Grandi Dionisie del mese elafebolione (nono mese attico, seconda metà di marzo e prima di aprile) al teatro Dioniso di Atene assieme alle perdute Filottete e Ditti e al dramma satiresco I mietitori. Nella storia greca fu un anno di grave sconvolgimento in quanto in seguito al rifiuto di riammettere Megara nella Lega delio-attica il re di Sparta Archidamo invase l’Attica, dando inizio alla prima fase della Guerra del peloponneso (Tucidide). Abbiamo rilevato già nella Pace la sua conclusione nel 421 a.C. con l’assalto di Trigeo e le speranze della pace di Nicia. Possiamo immaginare quanto avesse inciso sull’animo di quegli spettatori ormai smaliziati riguardo al mito e al divino, mentre udivano delle razzie e degli stupri lacedemoni nel loro territorio. Ma certamente l’impatto patetico più sconvolgente dovette darlo la rielaborazione euripidea del mito. A dimostrare quanto questa redazione avesse turbato l’animo degli spettatori per secoli lo dimostrò già la ripresa nel particolare genere delle riletture latine delle cothurnatae, l’adattamento al teatro romano di tragedie greche in vesti e lingua latina. Certamente grande influenza dovettero avere i quattro libri di ben 5.836 versi delle Argonautiche di Apollonio Rodio (III sec. a.C.), vedi la Medea Didone virgiliana, ma già il tema tragico euripideo si impose con la cothurnata, Medea del tricorde Ennio (239-169 a.C.), la più esaustiva e nota attraverso i 17 frr. a noi pervenuti e fu ripreso da Accio (174-84 a.C.). Seguirono le diverse letture di Ovidio (43 a.C. – 18 d.C.), in Heroides, Metamorfosi e nella perduta Medea, fino alla Medea, “virgo cruenta”, di Draconzio (V sec.). La sua fama e l’attualità del tema sono dimostrate anche dalle diverse riprese artistiche moderne, da quelle sceniche, come quella di Pierre Corneille del 1635, ispirata ancora a quella di Seneca, o quella di Franz Grillparzer (1920), fino alle rese pittoriche di Gustave Moreau (1864), Anselm Feuerbach e Paul Cézanne, a quella musicale di Johan Gottlieb Naumann del 1778, a quella di -Philippe Rameau (1715), fino al balletto di Mikis Theodorakis a Verona nell’agosto del 2014, il mitico Zorba il Greco della nostra gioventù.

Per citare una recente rilettura e rielaborazione non si può non ricordare il film televisivo di Lars von Trier del 1988, basato sulla sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer, con l’orrenda impiccagione in una landa deserta. Certamente da ricordare anche la Medea di Emma Dante, recensita proprio da Massimo Fusillo del quale abbiamo goduto a Siracusa la traduzione. Anche qui le sue ardite intrusioni, che ben conosciamo dalle sue infrazioni operistiche a sorpresa dalla Scala al nostro Teatro Massimo, la sua Medea incinta e le due scene di parto. E sarebbe la solita lettura sessista, se l’infanticidio non avvenisse per annegamento nel fonte battesimale, rito di vita in un rito di morte. Si tratta qui del riuso completo dell’iconografia cristiana siciliana, e le «chiese» e «Dio» nelle riedizioni eschilee di Pasolini. «Siamo invece di fronte a una prova di come il mito e la tragedia antica possano trovare una nuova sorprendente vitalità, se affidati a attori e registi che vivono il teatro come esperienza totalizzante» (Massimo Fusillo, “Primafila”, maggio 2004). Su questa linea dissacrante e di invenzioni metaforiche si pone la lettura talvolta ironica, talvolta parodica o simbolica del regista Federico Tiezzi, avvezzo a simili miscele letterarie, in questa 58° stagione dell’INDA. Non so quanto possa aggiungere o dimostrare l’intrusione delle musiche odierne di Silvia Colasanti già ad avvio, prima del prologo della nutrice, eseguite dal Coro di voci bianche e dell’orchestra dell’Opera di Roma, dirette da Sabbatini e Donadio. Ma così da tempo va a Siracusa con le letture. Nella tragedia greca e in special modo in quella del sofista Euripide, in anni in cui i miti erano noti a tutti e rinomati, aveva la semplice funzione di riassumere gli antefatti e preludere l’atmosfera della parodo, l’entrata del Coro di Corinzie nell’orchestra. Certamente leggibile il dirompere dei colori e la loro funzionalità nello svolgimento dei fatti, il rosso che inonda la scena nelle vesti sgargianti di Medea ricadenti in splendide piume. D’altronde tutto è sfavillante nell’allusiva scenografia di Marco Rossi e nei costumi di Giovanna Buzzi, anche quei lucidi secchi delle sguattere in blu di peccato e di sangue usciti appena dalla fabbrica e mai usati, le donne istericamente indaffarate nel vano tentativo di lavare il sangue. Perché pare (anche alla nostrana Emma e a tanti altri registi) che ormai il pubblico sia così deficiente che non riesce a capire la verità di ogni atto e avvenimento che ha voluto trasmetterci l’autore, ritiene necessario lo svelamento con il sotteso simbologismo. Come se l’orrore della vita avesse bisogno di simboli. Cosa vuoi ideologizzare una giovane madre che butta il neonato nel cassonetto della netturbe? L’assenza della Sacra Ruota, mal sostituita da qualche volontario ospedale? Allora da parte di una fattucchiera della barbara Colchide, che promette ad Egeo filtri per generare e dona manti e corone per bruciare con le fiamme la rivale, l’orrore di un anormale infanticidio: «e poi noi donne siamo per natura incapaci a far il bene, siamo le più esperte artefici di tutti i mali» (Medea, vv. 407-09). Perciò recrimina a Giasone che «bisognerebbe che i mortali generassero in altro modo i figli e non ci fosse il ghenos (gender?) femminile, solo così gli uomini non avrebbero male» (vv. 573-75). Qui Medea insiste sulla sua questione del talamo, il letto tradito, per non averle lui richiesto il permesso del ghàmos, il matrimonio. Sulla scena odierna nel salotto buono segnato ai quattro canti del recinto da busti di antichi greci, l’uomo civile in giacca e cravatta, senza fronzoli e veli, che espone nelle forme dell’orazione sofistica, la classica amilla, la lotta di discorsi, le sue terrene ragioni, il potere per il bene dei figli, di fronte la spregevole donna di tutti traditrice offesa dal rifiuto del sesso. E nella stretta diatriba con la stessa razionalità dell’ultimo Euripide sofista Giasone spiega le sue civili ragioni di dare un futuro nobile ai figli, lui anonimo borghese. Eppure il regista non può fare a meno di leggere e guidarci in quella società di coccodrilli, altre teste simboliche, certo con le maschere in scena, altrimenti non avremmo capito. Come non capivamo l’infanzia se non avessimo adottato i pupazzetti dei nostri bambini, i coniglietti da salotto odierno per altri che allora giocavano con altri giocattoli. Però qui intesi come “teste di conigli sacrificali”. Nulla da eccepire sulla sontuosità scenica, sul bagliore dei colori, sulla solita grù o torre metallica che ci rimanda all’inimitabile deus ex machina, quella donna che vola in alto, sui cavalli alati del progenitore Elios, omicida del più orrendo degli omicidi. In linea con la metodica ormai secolare della finzione scenica del teatro greco la gestualità della nutrice Debora Zuin, del Creonte Roberto Latini, del Giasone Alessandro Averone, di Egeo Luigi Tabita, del Nunzio Sandra Toffolatti, graziosi i giocherelloni figlioletti Matteo Paguni e Francesco Cutale. Forse si esagera un po’ nelle letture di fondo di Tiezzi tra le ambiguità di Casa di bambola di Ibsen e Danza di morte di August Strindberg o L’altare dei morti di Henry James. O l’accostamento addirittura al mondo magico di Ernesto Di Martino. Altra era la Medea di Euripide, pur sempre maga, barbara ed odiata dai civilizzati e lussuosi Corinzi, in quella frattura tra un substrato barbarico che crede ancora alla magia in una società in cui il razionalismo dei sofisti mette in crisi le antiche credenze, in cui lo stesso Euripide mette in dubbio la veridicità delle profezie e degli indovini (Filotette, fr. 795N2: “Perché mai voi, sedendo sui vostri troni di indovini, giurate di conoscere in maniera chiara le cose degli dei?) e al limite anche dell’antico Olimpo. È il grido di dolore di una donna che lamenta e sa riconoscere la sostanziale discrasia tra le due esistenze, quella maschile da quella femminile, il tema ormai schiacciante del gender. Ma è forse meglio riportare a monito di ieri le ragioni di Medea, assai diverse dalle donne odierne delle società occidentali (vv. 230-251, trad. Ettore Romagnoli):

«E poi,
donne nascemmo, al bene oprare inette,
ma d’ogni male insuperate artefici.

Fra quante creature han senso e spirito,

noi donne siam di tutte le piú misere.

Ché, con profluvii di ricchezze prima

dobbiam lo sposo comperare, e accoglierlo

— male dell’altro anche peggiore — despota

del nostro corpo. E il rischio grande è questo:

se sarà tristo o buon: ché separarsene

non reca onore alle consorti, né

repudïar si può lo sposo. E, giunta

quindi a nuovi costumi, a nuove leggi,

indovina dovrebbe esser: ché appreso

in casa non ha già come piacere

possa allo sposo. E quando, a gran fatica

vi siamo giunte, se lo sposo vive

di buon grado con noi, se non sopporta

il giogo a forza, invidïata vita

la nostra! Ma se no, meglio è morire.

Quando in casa si cruccia, un uomo può

uscir di casa, e presso un coetaneo,

presso un amico, cercar tregua al tedio:

noi, di necessità, sempre allo stesso

uomo dobbiamo essere intente. Dicono

che passa in casa, e scevra dai pericoli

la nostra vita, e invece essi combattono;

ed hanno torto: ch’io lo scudo in guerra

imbracciare vorrei prima tre volte,

che partorire anche una sola.».

 

E i cinquemila atterriti che pullulano, puntini di teste sulla gradinata, immersi nell’aura di tregenda, al sole calante dietro il colle, travolti e scioccati. Un attimo, l’invettiva oratoria di Medea in dialettica antitesi a quella di Giasone e quel “bastardo” (v. 465, παγκάκιστε), percepito con una isterica risata da tutti gli spettatori a rievocarmi le risate rumorose nelle sale cinematografiche della giovinezza nello sviluppo terribile di scene tragiche o truculente.

 

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