BIANCANEVE? SI PUÒ ANCORA

Carmelo Fucarino

E di nuovo un esperimento creativo dell’accoppiata del Direttore del Corpo di ballo Jean-Sébastien Colau (contratto triennale firmato da Betta) e del coreografo Vincenzo Veneruso a seguire all’altra discutibile prova di Anna dello scorso 30 settembre, balletto di danza contemporanea e nuova creazione per il Corpo di ballo del Teatro Massimo con scene di Chiara Pisani, sul discutibile pot-pourri di musiche tratte da Paolo Buonvino da film eterogenei (cf. Blog Vesprino del 10 ottobre, https://www.lionspalermodeivespri.it/wordpress/2023/10/10.

Ancora una nuova creazione del Teatro Massimo di Palermo sempre di Jean-Sébastien Colau, direttore del Corpo di ballo della Fondazione Teatro Massimo di Palermo, come già detto étoile, coreografo e maîtrede ballet internazionale, questa volta duplicemente impegnato anche nella collaborazione della coreografia con il napoletano Vincenzo Veneruso, presente al teatro San Carlo di Napoli. Quello che cambia in forma assoluta in questa creazione sono la narratio e la musica, entrambi scelte di eccellenza. Biancaneve (in tedesco Schneewittchen) è la fiaba popolare europea celeberrima in assoluto, la Biancaneve e i sette nani, o Nevolina nella prima traduzione italiana, quinta della raccolta del 1812 di Le fiabe del focolare (Kinder- und Hausmärchen) dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm. Vissi l’infanzia e la puerizia, non so se purtroppo, senza l’educazione delle fiabe, conobbi qualche novella di Cuore letta dalla maestra elementare, saltai addirittura alla maturità Pinocchio e il Collodi di Giannettino e Minuzzolo. Tuttavia i Grimm mi sfiorarono con l’esile corso su una loro fiaba, seguito dalla mia ragazza, del primo Rizzitano tedesco, prima che diventasse arabo. In tempi di acceso femminismo ‘di supremazia’ sull’ipotetico maschilismo, prova i cosiddetti femmicidi che ne dimostrano la sua tragica vulnerabilità, la terribile fiaba per bambini si basa su un femminicidio particolare e singolare, quello messo in opera da una madre, terribilmente invidiosa e ossessa dalla superiorità filiale, si pensi, in bellezza, oggi non assai rari gli infanticidi operati dalle madri che talvolta buttano i neonati nei cassonetti dell’immondizia. Conseguenze dell’abolizione della ruota dei conventi e nonostante la legale soluzione della pratica dell’aborto. Sull’operazione delle fiabe per bambini non solo dei Grimm ma anche di Hans Christian Andersen dalla Sirenetta alla Principessa sul pisello ci sarebbe da discutere per giornate. Sì, folklore popolare, ma basate sull’arma dell’orrore pedagogico assai discutibile. Capostipite quel Charles Perrault (Paris, 1628-1703) con le sue Histoires ou contes du temps passé, avec des moralités, note anche come Contes de ma mère l’Oye, i celebri Cappuccetto rosso, Barbablù, La bella addormentata, Cenerentola, Il gatto con gli stivali. Da discutere assai, dicevo, sulla morale e sulla pedagogia del terrore. In tema di femminicidio, qui materno, l’altro punto rivoluzionario il simbolico bacio, l’amore del maschio che la salva, l’Amore che è morto nei rapporti delle nuove generazioni ridotto a semplice e bruta sessualità, di proprietà e su concessione. Qui protagonista il comune e prosaico cacciatore (perché? A caccia di che?) che cancella il mitico de allettante principe azzurro, in combutta con i sette minatori di diamanti, alludenti ai diamanti animati, e la Biancaneve orfana di padre già avvelenato dalla moglie. Resta solo la famosa mela avvelenata qui offerta dalla madre camuffata vecchina. Non so quanto utili e necessari simili variazioni alludenti. Poi il volo della madre dalla torre e tutto concluso con la vittoria dell’Amore. Sulla presenza assidua di Thanatos suprema la sua vittoria. Oltre al tema narrativo l’altro elemento di eccellenza e certo di grandissimo rilievo è questa volta rispetto ad Anna la base di ballo con estratti di grande valore lirico-musicale, i più noti brani orchestrali del più geniale musicista tra Ottocento e Novecento, il sublime Sergej Rachmaninov. Nato forse a Velikij Novgorod il 1873 ebbe una vita travagliata dal punto di vista umano, tra fallimenti e miseria, tra esaltazioni e insuccessi anche nella sua arte, fra grandi amori e la morte del caro Zverev e poco dopo di Čajkovskij, il disastro della prima sinfonia e tre anni di profonda depressione fino al suo abbandono della Russia al momento della Rivoluzione di Ottobre non a lui congeniale e la sua morte a Beverly Hills nel 1943 per una serie di melanomi, naturalizzato statunitense con cerimonia pubblica a New York. È poco dire che fu il maggiore compositore e pianista di tutti i tempi, non solo della Russia. Emblematica e paradigmatica la sua definizione della sua vita: «Io sono me stesso soltanto nella musica. La musica basta a una vita intera, ma una vita intera non basta alla musica». La scelta dei brani di Veneruso e Colau è stata inoltre superba, tutti fra i più noti e suonati spesso in tutto il mondo. Perciò meritano un’analisi particolare, cosa che non faccio mai per i non addetti, tralasciando il racconto già troppo noto anche se con le accennate significative variazioni. Cominciamo con il più famoso di tutti i tempi, il più popolare ed eseguito dei quattro concerti per pianoforte del russo, il Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in do minore, Op. 18 (1900-1), che si chiude con i tre accordi ripetuti, ritenuta la firma ritmica del compositore, ta- tatata (Rach – maninov). Il brano si sviluppa nei tre classici tempi canonici: il primo Moderato, espresso da due temi che si intrecciano, il primo in tonalità minore, maestoso e grave, seguito dal secondo in tonalità maggiore, una dolce melodia. Segue un Adagio sostenuto che esordisce con un arpeggio in terzine di archi, fagotti e corni, poi il tema dolcissimo del flauto seguito dal clarinetto, che si scambia con il pianoforte in un duetto, poi un intreccio che esplode con tutta l’orchestra, per tornare dopo una cadenza del solista alla dolce prima parte del tema. Infine l’Allegro scherzando con il tono marziale del primo movimento, ma con più ironia. Dopo un primo tema saltellante; un secondo tema, dolcemente cantabile, viole e oboe e ripresa di pianoforte, tema universalmente considerato tra i più belli e i più celebri fra tutti quelli composti da Rachmaninov, un primo tema, spezzettato ed alternato fra il solista e vari strumenti, ove lo sviluppo si salda con la ripresa, che si afferma con il ritorno, adesso con i violini, del secondo tema. Dopo il cambio di tonalità in do maggiore, si giunge alla trionfale affermazione del secondo tema, vero protagonista del finale a piena orchestra. Infine la breve coda ancora mossa che conclude in un clima ora festoso e trascinante. Segue la Rapsodia su un tema di Paganini, op. 43 del 1934, sulla base del Capriccio op. 1, n. 24 di Niccolò Paganini, per pianoforte e orchestra, una delle ultime composizioni, strutturata in ben 24 variazioni. Pur seguendo senza soluzione di continuità, l’opera può essere letta in tre macrosequenze (1-11, più lenta 12-18, finale 19-24). Più nota fra tutte la 18, lento e melodico Andante cantabile inversione speculare dell’andamento melodico. Infine l’Adagio della Sinfonia n. 2 in mi minore, Op. 27 (fine del 1906-08, per chi vuole plateale per l’uso della bocca l’esecuzione in YouTube di Pappano), terzo movimento, strutturato nella forma sonata tripartita che a me ricorda la creazione della tripartizione corale (triade strofica, strofè, antistrofè ed epodo), inventata dal siceliota Stesicoro di Imera. Si ricorda soprattutto il tema iniziale, suonato dai violini primi e a seguire, citato sia come melodia sia come figura di accompagnamento. Si tratta in realtà solo di un’introduzione al tema principale, presentato con un lungo assolo del clarinetto. La seconda parte riprende il motto iniziale e appare come diretto complemento dell’introduzione del primo tempo, con un appassionato climax in do maggiore. Segue un passaggio al tema di apertura e poi di nuovo la melodia centrale del movimento, ora suonata dai violini primi, con frammenti del primo tema in accompagnamento. Il movimento si conclude con il lento morendo degli archi. Per quanto riguardo il balletto come commento e realizzazione corporea di questi immortali temi musicali si manifesta nella varietà dei passi e delle figure, giri, salti e prese, sulla traccia coreografica di George Balanchine, pur se certa mimica gestuale delle braccia e balbettii delle labbra e moti del volto a rappresentare il dialogo dei ballerini trascende in una gestualità e in un colloquio che appare quasi da comunicazione fra sordomuti. E questa esasperazione talvolta disturba e riesce comica. Ancora la novità che ormai si va diffondendo e diventa quasi ostentata e di parata la direzione di una donna, Danila Grassi, pugliese del 1993, diplomata al Conservatorio dell’Aquila e studi alla Civica scuola di musica Claudio Abbado di Milano, corsi di perfezionamento alla St Andrew University in Scozia. Da rilevare dopo l’ossessione del modernismo in questa danza moderna che le scenografie e i fondali dipinti dalla slovena Apollonia Polona Loborec, creati per questo balletto, rispettano la tradizione senza esagerazioni e sbavature, bosco e casetta, come i raffinati costumi della sartoria del teatro creati da Cécile Flamand ormai di casa e le luci di Maureen Sizun Vom Dorp, pure lui ormai di casa. Da ascoltare l’esibizione al pianoforte di Alberto Ferro. Pregevole l’interpretazione di Carla Mammo Zagarella-Biancaneve e dell’adottato Michele Morelli – cacciatore, di origini ucraine e cresciuto a Benevento, avviamento al San Carlo di Napoli e completamento alla Scuola del Teatro dell’Opera di Roma. Dal 2016 danza nel Corpo di ballo del Teatro Massimo di Palermo, dove ha interpretato tanti ruoli da solista e primi ruoli come Romeo nel Romeo e Giulietta di Davide Bombana. Nella varietà dei passi e delle figure, negli a solo e nelle coreografie da ricordare gli Alberi Vincenzo Carpino, Diego Millesimo, Andrea Mocciardini, Riccardo Riccio, La cerbiatta Daniela Filangeri, Il Diamante Giulia Neri, Diamanti solisti Annamaria Margozzi, Michaela Colino, I sette minatori Lucia Ermetto, Emilio Barone, Gianluca Mascia, Diego Mulone, Giovanni Traetto, Dennis Vizzini, Francesco Curatolo, Il giullare di corte Benedetto Oliva. Per la complessità e varietà di tutta la coreografia, ma forse anche per lo sforzo economico basti pensare che si trattava di tre cast di 45 ballerini nelle otto serate di recite. In onore del Teatro Massimo e della sua attività scrivo qui ad epigrafe di questo intervento che il Comitato Intergovernativo dell’UNESCO, riunito in Botswana il 6 dicembre 2023, ha deliberato l’iscrizione dell’arte del canto lirico italiano nel Patrimonio immateriale dell’Umanità.

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