PARTHENOPE DI PAOLO SORRENTINO
Gabriella Maggio
Celeste Dalla Porta –Parthenope
Come Napoli Parthenope nasce nel mare , potremo anche dire dal mare , se, diventata adulta, dirà che è fatta di acqua e sale come il figlio del professore Marotta, come la città. Film allusivo, Parthenope, ricco di metafore che, vogliono comporre l’immagine di una società napoletana complessa e perturbante, ritratta nella bellezza di Posillipo, nella crudezza irredimibile dei bassi e della malavita, nella bellezza ferita delle “dive” del cinema cittadino, nell’aggregazione popolare intorno a S. Gennaro o allo scudetto calcistico. I personaggi avvertono un groviglio di sentimenti che non riesce a manifestarsi compiutamente, si blocca in una incomunicabiltà ora rabbiosa come nelle attrici, o dolente come in Raimondo, nello scrittore Cheever e nella stessa Parthenope, ora cinico come nel vescovo Tesorone. Se Raimondo si suicida, Cheever cerca una via di fuga nell’alcol, Parthenope vive cercando di rielaborare il lutto del fratello, accontentandosi infine di quello che ha, gli studi di antropologia, l’Università di Trento, l’affetto delle studentesse, unito alla nostalgia per quello che non è stato, non ha saputo cogliere nella sua vita. L’antropologia e il desiderio di darne una definizione compiuta è un filo rosso sotteso a tutto il film. La cultura non risolve i problemi di Napoli, aiuta, forse, a vederli, a conviverci senza giudicare, come dice il professore Marotta. Il film è un invito ad accettare la vita com’è, a viverla per quella che è, cogliendo il bello che può offrirci, sempre mescolato con l’amaro della nostalgia, del non vissuto. Questo il senso del ritorno di Parthenope a Capri, il suo appoggiarsi alla ringhiera da cui si è lasciato cadere Raimondo. Parthenope affascina, come La grande bellezza. L’occhio di Sorrentino s’insinua curioso e ironico, visionario e affabulante nelle due città, Napoli e Roma, scelte ad emblema dell’ incoerenza contraddittoria della vita. Parthenope è un film divisivo, ora definito capolavoro di poesia, ora canto dolente per Napoli, ora sequela di luoghi comuni privi di approfondimenti. Forse è tutto questo insieme, ma è anche altro, dal momento che, credo, sia una personalissima rappresentazione del nostro tempo a partire dagli anni ’50. Sorrentino si fa interprete di una parte della società napoletana , quella borghese e benestante che cerca di trovare un senso, una direzione interiore, ma non si cimenta nell’impegno e nella denuncia sociale e politica. Emblematica, a mio parere, è la scena dell’arrivo della carrozza dal mare, come regalo che Achille Lauro fa per la nascita di Parthenope, per “viaggiare” con la fantasia, visto che è antica, viene da Versailles e non ha cavalli. Lì, nascosti agli sguardi degli adulti Parthenope e Raimodo vivono momenti felici dell’infanzia e dell’adolescenza, come separati dalla realtà. Del contesto storico-sociale di Napoli nulla trapela nel film se non alcune immagini di giornali e della televisione. E questo ad alcuni è sembrato una mancanza. Ma certamente è una scelta consapevole del regista, che vuole dare una sua personale lettura degli anni dal 1950 ad oggi, concentrandosi sulla dimensione interiore dei suoi personaggi principali, sulla traccia che il tempo lascia su di loro. Questi non sono animati da quello che si definiva “l’impegno” politico-sociale, anzi sembrano lontani e indifferenti. Rappresentano un modo di essere autoreferenziale, oggi molto diffuso che si traduce nella diserzione dal voto, in tutti quegli atti che definiamo “crisi” della democrazia”. Forse Sorrentino ha voluto dare voce a questo atteggiamento umano, a una rinnovata indifferenza. E, come il professore Marotta insegna a Parthenope, Sorrentino guarda senza giudicare. In fondo ha affermato in un’intervista di “essere Parthenope”. Come tempo fa disse Flaubert : “Madame Bovary c’est moi”. Parthenope è però un film che fa pensare e riflettere e soltanto per questo, trascurando tutti i suoi numerosi meriti, ha raggiunto un grande obiettivo : animare il confronto di opinioni. Agitare le acque.