CARMEN AL MASSIMO

( Salvatore Aiello)

Torna prepotentemente ad imporsi sulla ribalta del Massimo di Palermo, in un allestimento in coproduzione con il Gran Teatre del Liceu di Barcelona, il  Teatro Regio di Torino e il Teatro La Fenice di Venezia, Carmen che continua come sempre a stupire per la straordinaria vitalità collocandosi tra le opere che restano pietre miliari  nonostante, per qualche verso, la sua incompletezza per  la morte prematura del genio compositore. Richard Strauss ci ha lasciato una nota testamentaria: “ Non studiate le partiture di Wagner ma quelle di Carmen…..come cadono al punto giusto ogni nota ed ogni pausa”. Per la crudezza dell’argomento, per  le sfaccettature, la protagonista divide e coinvolge tra ancestrali modi di vivere e di sentire in antitesi al regolare mondo affettivo di Micaëla, personaggio estraneo a Mérimée  ma necessario per placare i dissensi e  le ire della borghesia che affollava l’Opéra Comique. Lo spettacolo già visto nel 2011 riapre ancora il dibattito tra  tradizione ed innovazione con la voglia di scardinare certi pregiudizi teatrali ed imporre una visione più moderna della vicenda; la regia di Calixto Bieito, degno erede di Peter Brook, ripresa da Antón Rechi, in genere ci prende  per la carica drammatica e funerea che la distingue per le tante allusioni, anche se talvolta gratuite, ma che certamente catturano la curiositas. Si sente in lui un desiderio di spazzar via ogni vetero riferimento alla Spagna, del resto lontana dalla conoscenza di Bizet, per trasportarci in una condizione umana in cui disperazione, disumanità assumono tinte paradossali con gioco spasmodico della violenza e dell’erotismo, di una sessualità di basso profilo. Il regista ci trasporta negli anni ’70 del XX Secolo e sceglie come location uno spazio tenebroso e complice dell’ostilità che vi si consuma sul quale si accampano nuovi simboli: un pennone, una cabina telefonica, delle mercedes dagli sportelli affossati, un eccentrico albero di Natale disperato panorama di vite di zingari alla frontiera pronti a sfidare il tutto tra lascivia ed intrighi. E’ un mondo  abietto dove sin dall’inizio cresce e giganteggia il gioco della morte come liberazione, come riscatto e anche, come ci suggerisce la protagonista, voglia di libertà. In tempi di femminicidio tutto assurge ad una sconvolgente modernità poiché Don José ci racconta come da sempre l’uomo in amore si è illuso di  essere vincitore, non è pronto assolutamente a perdere e più viene respinto più la sete di potere e l’accesa gelosia diventano armi per trasformarlo in misero svanito essere senza altra identità.

Per una regia tale é necessario che tutto un palcoscenico ruoti attorno all’idea ossessiva del regista che non lascia respirare che ci trascina senza pietà nel vortice oscuro del male; tutti debbono imparare a muoversi, a correre, a saltare persino sul tetto delle macchine e della cabina telefonica, a cantare in qualunque posizione per potere restituire  il vento e il tormento della passione irrefrenabile che anima i personaggi anche a rischio delle ragioni del canto. Allontaniamo a questo punto dalla memoria le grandi Carmen,  i Don José del passato e ne prendiamo le distanze per meglio adeguarci al nostro tempo. La direzione sostenuta da Alejo Pèrez deve fare i conti con quanto richiede il palcoscenico per far sì che la musica trovi rispondenza con la linea dettata da Bieito per cui gli attacchi, le dinamiche, i fraseggi, il legato tentano duttilità che non sempre però trovano il giusto respiro e il dovuto equilibrio. Varduri  Abrahamyan riveste il ruolo demoniaco e perverso della protagonista con un habitus nuovo che viene da altra cultura, lontana dalla solarità mediterranea evidenziando una vocalità corposa, omogenea ed estesa e scenicamente molto efficace alle indicazioni erotiche  ma carente  di colori, di sorgiva femminilità e voluttà, di luminosa  morbidezza espressioni di una sentita vitalità interiore. Arturo Chacón-Cruz, subentrato a Roberto Aronica, ammalatosi, subito ci fa capire  che al suo Don José manca  la padronanza  necessaria al ruolo, la gagliarda possanza dell’acuto perché la voce risulta piccola anche se bisogna riconoscergli garbo, emissione controllata, morbidezza scevra però da fraseggi articolati e persuasivi. L’Escamillo inerte di Marco Mimica lascia perplessi  per una vocalità ibrida  riuscendo raramente a convincere per carenza di velluto e accento imperioso. Partecipe la Micaëla di Maria Katzarava con solidità  vocale poco docile  nella zona acuta e non del tutto  propensa  alla poesia e alle sfumature del personaggio inerme ai bordi di un mondo ove incombe il cieco destino.  Completano dignitosamente il cast  Marina Bucciarelli(Frasquita), Annunziata Vestri (Mercédès), Nicolò Ceriani (Le Dancaire), Cristiano Oliveri (Le Remendado), Vittorio Albamonte (Moralès), Mariano Buccino (Zuniga).

In piena ribalta il Coro e il Coro di voci bianche del Teatro Massimo. Come prevedibile lo spettacolo non incontra totalmente il gusto del pubblico e  nel finale corposi fischi coperti da sollecitati applausi concludono la serata e crediamo che Rechi dovrebbe ripensare a rivedere alcune ingenuità o gratuità che abbassano in qualche modo le intenzioni felici che lo animano.

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