DALL’ESOTICA CEYLON DI BRAHAMA

Carmelo Fucarino

Il nostro Giacomo Puccini, universalmente idolatrato quest’anno nel Centenario della sua morte (Bruxelles, 29 novembre 1924), – e ne avremo in tutte le forme e deformazioni, fino al ‘fotografo’ (a Lucca ‘Qual occhio al mondo’) con le foto della sua Kodak, e come di moda in questa follia culturale distorto in devianti e antistoriche letture addirittura destrorse, ci sarebbe arrivato solo nel 1904 con Madame Butterfly, la ‘tragedia giapponese’ di Cio Cio-san alla Scala e l’avrebbe ripetuto ancora nel 1910 con La fanciulla del West (la prima al Metropolitan di New York, «Mi son messo in cammino / attratto sol dal fascino dell’oro…/ È questo il solo che non m’ha ingannato. /Or per un bacio tuo getto un tesoro!») e nell’incompiuta Turandot del 1926, la Pechino della Scala («Chi quel gong percuoterà / apparire la vedrà / bianca al pari della giada / fredda come quella spada / è la bella Turandot!»). Si vuol rimarcare il tema e l’ambientazione su base e impianto espressamente esotici, dal buddismo nipponico al mitico Far West fino alla misteriosa Cina (mito già divulgato nel 1762 nella fiaba teatrale da Carlo Gozzi). Georges Bizet (Paris, 25 ottobre 1838, Bougival 3 giugno 1875) c’era arrivato già nel 1863 con Les pêcheurs de perles (I pescatori di perle), opera lirica in tre atti su libretto di Michel Carré e Eugène Cormon, che aprivano la scena su una spiaggia vicino al tempio dedicato a Brahma nell’isola di ‘Ceylan’ (ove si dice che nel tempio del dente si conserva una zanna di Buddha), con dei pescatori che cantavano e danzavano (in libretto, Pescatori – Fakiri – Sacerdoti — Maliarde,  ecc). Non si trattava di un luogo mistico e forzato, ma semplicemente esotico, tanto che l’altra ipotesi ventilata di identico stile era stato il Messico. Ancora nel libretto (TERRANOVA TIPOGRAFIA EDITRICE): «Una spiaggia arida e selvaggia nell’isola di Ceylan — A destra e a sinistra, capanne intessute di stuoje e di bambù. — Verso il proscenio, alcuni grandi palmizi, ombreggianti cactus giganteschi piegati dal vento. — Nel fondo, sovra uno scoglio che domina il mare, le rovine di un’antica pagoda indiana. — In distanza, il mare rischiarato da un sole ardente». Poi «Pescatori, Uomini, Donne e Fanciulli. (All’alzarsi della tela, i pescatori dell’isola, uomini, donne e fanciulli, ingombrano la riva. Chi finisce di rizzar le tende, chi dà l’ultima mano alle capanne Selvagge.—Altri danzano e bevono, al suono di varîi strumenti indiani o ‘ chinesi) | INTRODUZIONE. Coro “Sulle arene d’òr, Dove l’onda muor, La tribù si pianti!”». Valeva la pena riportare questo attacco dell’opera per rilevare la novità straordinaria del Coro danzante ad inizio. Bizet, favorito dall’ambiente familiare musicalmente impegnato e attivo. il padre Adolphe e lo zio François Delsarte maestri di canto, la zia Charlotte Delsarte, un’ex allieva di Cherubini e insegnante di solfeggio al Conservatorio, la madre Aimée, discreta pianista, aveva appena 25 anni quando Léon Carvalho, direttore del Théâtre Lyrique di Parigi gli commissionò l’opera. La questione dell’incarico, come compositore vincitore del Prix de Rome ed esordiente sulle scene, l’obbligò all’accantonamento dell’iniziato Ivan IV, il breve tempo a disposizione furono alcuni ostacoli alla realizzazione dell’opera indecisa già nel titolo che fu all’inizio Léïla. Rinviata per l’indisposizione della protagonista la prima ebbe luogo il 29 settembre 1863, ottenendo un discreto successo di pubblico. Poi l’irrazionale colpo di grazia dei rimaneggiamenti e dei tagli al libretto; con un testo che divenne completamente discordante con la protagonista base musicale, in particolare nell’ultima scena rimaneggiata. Considerato oggi il primo capolavoro operistico di Bizet e presente nei cartelloni mondiali, l’accoglienza da parte della critica fu fredda e si concentrò in modo assai negativo soprattutto sul libretto. Non vi si individuò nulla di nuovo e si ritenne un tema convenzionale e senza mordente. Si trovarono influssi e analogie con La Vestale, tragédie lyrique di Gaspare Spontini (1807), capolavoro di finezza e aderenza strumentale e di psicologia dei personaggi e di azione scenica. In effetti non c’era bisogno di scomodare le vergini di Brahma, quando si aveva il tema in casa l’amore di Licinio, amico di Cinna, per Giulia, sacerdotessa del sacro fuoco di Vesta. Eppure oltre all’originalità del tema esotico, già un impatto nuovo e sorprendente è offerto dall’avvio inconsueto danzato con insoliti cromatismi e un ritmo marcato che esula talvolta dalla narrazione dei librettisti e dove le innovazioni ritmiche, armoniche e timbriche da semplice sfondo ambientale diventano predominanti e caratteristica fondamentale della musica. Invece si interpretò allora come Grand opéra e si accusò di troppa enfasi, addirittura ridondante, le ‘originalità armoniche’ si videro come semplici bizzarrie di  ragazzo inesperto. Pochissime le voci a suo favore, come Ludovic Halévy, che ne rilevò la qualità e la potenza dell’orchestrazione. E ciò potrebbe essere comprensibile data la vicinanza di sensibilità, se questi sarà scelto come autore del libretto della sua universale Carmen, virale l’Habanera L’amour est un oiseau rebelle. Hector Berlioz ne rilevò alcuni pezzi intensi e coloristici e soprattutto la bellezza del duetto del primo atto Au fond du temple saint (Jounal des débats, Parigi, 8 ottobre 1863). Definito dallo stesso autore un insuccesso, ‘onorevole’ però, scomparve dalle scene senza che l’autore intendesse rimettervi mano. L’ultimo sprazzo all’Esposizione universale di Parigi del 1889, caso strabiliante nella traduzione italiana operata dall’editore Sonzogno con un finale posticcio. La resero famosa in Italia l’interpretazione di Beniamino Gigli in Je crois entendre encore (Mi par d’udir ancora) e di Ferruccio Tagliavini. La rivalutazione teatrale moderna è testimoniata da  questa ripresa in lingua originale francese da parte del teatro Massimo di Palermo nell’allestimento dell’Opéra national du Capitole de Toulouse e dall’eccezionale partecipazione del grandissimo direttore Gabriele Ferro, figlio del compositore messinese Pietro, direttore musicale onorario a vita del Teatro Massimo, ma anche accademico di Santa Cecilia e docente di Direzione alla Scuola di Musica di Fiesole, già direttore stabile dell’Orchestra Sinfonica Siciliana, direttore principale dell’Orchestra Rai di Roma, Generalmusikdirektor dello Staatstheater di Stoccarda, direttore musicale del San Carlo di Napoli e direttore principale (2001-2006) e dal 2014 al 2019 direttore musicale del Teatro Massimo di Palermo. In estrema sintesi ed encomio per i suoi 87 anni (Pescara, 15 novembre 1937). Ritorno ancora nella Regia e coreografia Thomas Lebrun, coreografo e ballerino francese, attuale direttore del Centro Coreografico Nazionale di Tours, riprese e adattate da Angelo Smimmo, coreografo che ha lavorato con Maurice Béjart tra i tanti famosi.
Adattate all’ambiente esotico le smaglianti e sontuose scene di Antoine Fontaine, già pittore in restauri monumentali, i costumi di David Belugou, forse nel personaggio chiave alquanto esasperate, ma il colorismo risponde alle esigenze sceniche ormai comuni per abbagliare i fruitori. Così la strana pagoda. Ormai conosciamo l’eccezionale interpretazione e la versatilità dei movimenti del nostro Coro, e del corpo di ballo e Orchestra del Teatro Massimo di Palermo, e ammiriamo la lettura mimica del maestro del Coro danzante Salvatore Punturo (Sur la grève en feu, L’ombre descend des cieux), e della già apprezzata direzione del Corpo di ballo di Jean-Sébastien Colau.
Nulla da eccepire riguardo all’interpretazione di Nadir-Dmitri Korchak, tenore russo (1979, Elektrostal, Mosca, dal Teatro di Nowosibirsk, al Festival di Pesaro e alla Chicago Symphony Orchestra, romanza, Je crois entendre encore, canzone De mon amie, fleur endormier), di Leïla – Federica Guida, soprano palermitana venticinquenne alla Scala (originale la romanza con Coro O Dieu Brahma), di Zurga – Alessandro Luongo (baritono, Premio Speciale a Pisa, aria, O Nadir, tendre ami de mon jeune âge), del sacerdote Nourabad – Ugo Guagliardo, basso palermitano del Conservatorio Bellini, con il trasbordante costume, ma soprattutto con la sua multiforme attività operistica, anche nell’ambito della musica antica e sacra, tutti approvati da meritati applausi.

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