Die Walküre o Wotan dilaniato

(Carmelo Fucarino)

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«Ci sarà una nuova guerra. A scontrarsi due eserciti: da una parte quanti credono ancora nei poteri nascosti in ciascuno di noi, e sanno che il prossimo passo della nostra evoluzione sarà proprio far crescere questi doni individuali; dall’altra parte coloro che credono che la vita sia irrimediabilmente destinata a finire». «Le porte del paradiso sono nuovamente spalancate e accessibili. Dio ha allontanato l’angelo che montava la guardia con la spada fiammeggiante. Per un certo periodo di tempo – nessuno sa esattamente per quanto -, chiunque può entrare, purché si accorga che l’ingresso è aperto». «Il peccato più grande è la mancanza d’amore. Mostratevi coraggiosi, imponetevi di amare, anche quando l’amore vi sembra un sentimento traditore e infido. Rallegratevi dell’amore gioite nella vittoria. Seguite le indicazioni dei vostri cuori». (da Le Valchirie di Paulo Coelho)

 

Ci sono momenti di divino straniamento nell’immersione in una creazione artistica sia essa poetica, figurativa o musicale. Questo dà all’ascoltatore la sublime, divina Calvacata delle Walkirie. A meno che… Avevo deciso di chiudere gli occhi e lasciarmi andare alla magia infinita, ma quell’orrendo scalpitare di podisti, corridori forsennati sulla scena… E quell’incanto è stato strappato da un insulso espediente di teatro. Con quell’orchestrina senza nerbo e vigore, l’incanto stuprato e il senso interiore della delusione e del tradimento. È stata una serata senza magia in una creazione che Wagner aveva tutta vissuta nella magia. I vuoti vistosi in sala e nei palchi per un evento eccezionale per Palermo, l’esodo alla fine del secondo tempo. Non avverrà assai presto quando riavremo l’occasione di ascoltare un altro oceanico Wagner fra tanti officianti pucciniani o tutt’al più verdiani. Era questo l’evento epocale per Palermo, ripreso dalla stampa nazionale. Si è scelto un giorno di metà settimana e un’ora pomeridiana, infausti per chi lavora. Ma non si sarà trattato solo di questo. La prova data dal gruppo teatrale nel Prologo non era stata neppure tanto propiziatoria, a parte le cervellotiche marinistiche messinscena, giustificate solo dal desiderio di stupire con il gratuito modernariato, le solite chitarre nella transustanziazione. Anche in questa serata la roulotte uscita di serie non ispirava sublimità per il Wotan «in assetto di guerra con lancia: davanti a lui, Brünnhilde, quale Walkiria, egualmente in pieno assetto di guerra», ridotto ad un cowboy con occhiali e cappellaccio, che si trovava a dovere subire gli ordini perentori di un’attempata signora, in visita con borsetta e cappellino, la «Fricka s’appressa, la tua donna, / nel carro, a tiro d’arieti». Eppure mi aspettavo Hera («La fedele consorte / sempre tradisti»), che reclama sacra punizione e vendetta per «il nuziale / santo giuramento, duramente offeso», quando Wotan si aspettava: «La solita tempesta, la solita fatica!». Certo siamo al momento della caduta degli dei. Ma con molta miseria e disonore simili dei, l’antica coppia divina di Zeus ed Era e la figlia guerriera (Athena guerriera?). Altro fu per la Germania il crepuscolo degli dei. Questa “Giornata prima della sagra scenica”, fu da Wagner sentita come uno stupendo amalgama di voce e strumenti, lui che ne era l’autore unico senza intermediari librettisti, musicista e poeta sommo creatore dell’epos nordico. Il tutto si dipanava in un intreccio di azione (l’agon tragico classico) e di narrazione, lunghissime riposanti conversazioni, in cui la musica culla le rievocazioni, che si sviluppano in un ampio e complesso impianto narrativo. Alla fine di questo agone, la catastrophé e la promessa soteriologica di una catarsi, la morte e la resurrezione ctonie. Povera cosa quel cerchio di rossi vestiti ad immagine di cerchio di fuoco intorno ad una eroina che si denuda in reggiseno e si avvolge in un sacco impietoso di obitorio, nuovo di zecca. Ma andiamo con ordine in queste riflessioni inadeguate, data la complessità del tema e la piccolezza dello spazio, davanti alla morte di Wagner autore di una saga divina. D’accordo, ci sono le leggende dell’epos nordico, i primitivi terrori delle brume. Un oltretomba popolato di spiriti tenebrosi, un paradiso altrettanto pauroso di dei in lotta fra di loro. Su tutto quell’atmosfera di magia, la spada conficcata nel frassino (albero che suscita altri ricordi, con molta fantasia botanica dato il tronco informe), nella roccia per Roland di Roncisvalle. Ed il primo tema forte. La dolce Sieglinde (anche brava attrice il soprano) costretta alle nozze che prova i brividi di amore per un ignoto ospite sventurato e si vota subito all’adulterio, nella magia di quella porta che si spalanca su una surreale improvvisa primavera, quel fraseggio misterioso che crea l’arcano rabbrividente leit-motiv, «nel gelido tempo d’inverno», «quando primamente mi fiorì il tuo sguardo» (als dein Blick zuerst mir erblühte), quei fremiti e quei palpiti divini. Perché c’era nella creazione wagneriana questo sentimento forte del divino che si perdeva nei meandri del subconscio, negli oscuri contrasti interiori. Però è un Olimpo nordico in cui manca la bellezza solare di quello omerico ed esiodeo, la gioia della vita senza la macchia del peccato originale, a cui rinviano le nozze di Wotan con donne terrene e la venuta nel mondo di una stirpe di eroi. Peccato che questa tragedia divina che rappresenta l’orrendo contrasto interiore dell’uomo sia stato tradito da alterchi da operetta. Eppure c’erano tutti i temi che avevano fatto grandioso il mito tragico greco. Mi sovviene l’adulterio-incesto edipico, qui l’amore tenero e profondo, in un osceno connubio consapevole a differenza di Edipo, l’orrore di un amore che la tragedia greca aveva reso innominabile, “la sposa e sorella” (Braut und Schwester). Se il conflitto interiore dei due amanti era risolto nella donazione della passione, più tragico e inconsolabile l’altro conflitto amoroso, il secondo grandioso tema, l’amore paterno scisso tra sentimento umano e osservanza delle ferree leggi del diritto, tema che aveva trovato in Grecia l’eroina in Antigone assetata di luce. Anche Wotan padre amoroso, stretto, come gli uomini, dalla dura legge di Ananke, l’impossibilità di una libera volontà che tragicamente si dibatte tra amore e morte e scarica la sua furia sulla Brünnhilde-Antigone che pone sopra tutto l’amore fraterno. Questo titanico cozzare di antitetici sentimenti che Wagner conduce, musicalmente e dialogicamente, per i novanta minuti del secondo atto (lode all’eroismo degli artisti che hanno affrontato una tale tregenda), in uno scavo interiore, tra barlumi di ripensamento e abissi di dolore. Era questo il dramma di un dio, diremmo con Omero, il padre degli uomini e degli dei, «Quel ch’io amo, debbo lasciare, colui ch’io diligo, uccidere». Veramente titanico e sublime, nella divinità prima fra tutti e negli uomini di sempre. Su loro, padre e figlia, grava quel terribile assillo, la vendetta che inseguiva e non mollava la presa, come cagne assetate di sangue, le pietrificanti Erinni della cultualità mediterranea, le protettrici della famiglia matriarcale, in difesa del vincolo matrimoniale, l’inesausto inseguimento per l’uccisione della madre Clitennestra che nella Grecia primordiale si placava con la fondazione del diritto. Qui l’incesto è risolto con la morte apparente (la Bella Addormentata nordica), in attesa di un’età migliore in cui un altro eroe risolverà l’incantesimo. Là era il mondo reale dei conflitti e delle soluzioni, qui nell’epos nordico il gioco sempre presente di eventi magici, l’aleggiare perenne di un evento risolutore straordinario. In termini di favola popolare la vita ridata dal bacio di un amante, per la Brünnhilde, l’Antigone che si ribella al padre per salvare il fratello da entrambi troppo amato: «Solo ai sacri alla morte / è concessa la mia vista; / Io sapevo il dissidio, che ti costringeva / o ridente riso dei miei occhi» (dich, die ich liebe, / du lachende Lust meines Auges). Tutto l’altro è polvere davanti a questo tragico e struggente dilemma. Il nordico Wagner, il biondiccio che fa mostra nel dipinto del 1882 di un francese, August Renoir, amanti di Palermo, quel Wagner della corte di Ludvig che rilegge in chiave nibelungica i grandi mitologemi mediterranei e ne scevera i suoi archetipi.

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