CHE FARÒ SENZA EURIDICE?

Carmelo Fucarino

(Venice) Orpheus and Eurydice by Antonio Canova – Museo Correr

 

È stata nella mia vita la domanda più insistente e sempre presente da quando intorno ai sedici anni mi incantò quel mito alla conclusione della ricerca georgica della mia terra, fra i miei contadini, con quella chiusa (Georg. IV, vv. 526-527,

A miseram Eurydicen!” anima fugiente vocabat,

Eurydicen toto referebant flumine ripae.”

 

Doveva esserci l’elogio del neoterico Cornelio Gallo al quale aveva dedicato l’Egloga X con quel celebre Omnia vincit amor: et nos cedamus amori (v. 69). Si dice per una damnatio memoriae, imposta da Augusto, e conclusa con il suicidio del poeta nel 26 a.C., Virgilio vi inserì il mito di Aristeo e della pestilenza delle sue api che rinascevano dalle viscere, l’espressione della nascita e della vita.  E sarà il tema della mia vita. Ho ritrovato il mito a venti anni nell’Orfeo ed Euridice (Orphée et Euridice) di Christoph Willibald Gluck nel mio corso universitario sulla storia della musica. Eppure non ebbi occasione e forse voglia di ascoltare tutta l’opera, pago che senza lui non sarebbe esistito Mozart e tutta l’opera lirica.  Su libretto di Ranieri de’ Calzabigi (Livorno 1714 – Napoli 1795) creò la forma dell’azione teatrale, partendo da questo mito e adornandolo di cori e danze. Diciamo, l’ha sfiorato, perché all’incanto virgiliano ha aggiunto soltanto quel divino rondò Che farò senza Euridice. E questa continuò a stordirmi ed ammaliarmi fino a divenire la sintesi di una parte problematica della mia gioventù con l’ispirazione del romanzo Che farò senza Euridice! (Spazio cultura edizioni, Palermo, 2018).Certamente l’opera era stata una rivoluzione: «In Austria, poi, l’iniziativa di segno massonico era stata all’origine di uno dei grandi eventi culturali del Settecento, la riforma del melodramma, risultato degli sforzi congiunti di un librettista (l’italiano Ranieri de’ Calzabigi), e di un musicista (il boemo Christoph Willibald Gluck) massoni alle dipendenze di un direttore dei teatri (il genovese conte Giacomo Durazzo) massone e protetti da un cancelliere imperiale (il principe di Kaunitz) massone, lavoro intrapreso per compiacere un imperatore (Francesco I) massone: Orfeo e Euridice (1762)» (Gerardo Tocchini, “Massoneria, pubblici spettacoli e mecenatismo musicale nel Settecento” in La Massoneria. la storia, gli uomini, le idee, a cura di Zeffiro Ciuffolletti e Sergio Moravia, Milano, Mondadori, 2019, p. 68). Fu sulle scene a Vienna il 5 ottobre 1762, che su impulso del conte Giacomo Durazzo, direttore generale degli spettacoli teatrali, aprì la stagione della riforma gluckiana seguita dalle altre opere Alceste e Paride ed Elena, tema il mito greco, in stretta simbiosi tra musicista e librettista per eliminare l’astrusità delle trame dell’epoca e dell’opera seria italiana e rimodulare l’azione drammatica dagli eccessi dei vocalizzi, in un ponderato equilibrio tra parola e musica con l’introduzione della forma strofica e del celeberrimo rondò. In quest’opera a denunciare questa semplicità delle strutture e della narrazione la restrizione delle parti a soli tre interpreti, coadiuvati dal commento del Coro. Identica la riforma del balletto, introdotta dal coreografo Gasparo Angiolini con la nascita della nuova forma coreica del balletto pantomimo o ballet d’action. Non ci perdiamo nella lunghissima e complessa storia delle rappresentazioni e così fra le numerose versioni, fino alla sesta a stampa di Ricordi (Milano, 1889). Primo Orfeo nel 1762 fu il famoso contralto castrato Gaetano Guadagni, anche perché esperto attore e pure per le doti di canto di espressione al di fuori degli stereotipi prolissi dell’epoca. Perciò la sonorità nuova per noi nella ripresa della primaria edizione in questo nuovo allestimento del Teatro Massimo di Palermo che sulla scia di quella prima a rappresentare Orfeo è stato il controtenore Filippo Mineccia, che, specializzato nella tradizione antica e nella lirica barocca, ha dedicato le sue ricerche sugli interpreti della vocalità e della pratica canora dei cantanti castrati, rilevandone biografia e stili. Egli cerca in genere di creare sobrietà nel legato e nell’appoggio per rendere più dolce il falsetto. La presenza preponderante di Orfeo, trova il contrappunto nella Euridice, rappresentata dal soprano palermitano Federica Guida e dal supporto di Amore, che trova la recita nel soprano israeliano Nofar Yacobi. Diciamo che è assente la sonorità propriamente maschile del tenore e del baritono, essendo il controtenore nella linea del contralto. Direzione che suscita ricordi e affetto, ma anche ammirazione quella del direttore onorario Gabriele Ferro (Pescara, 1937) che tanti decenni dal 2001 ci ha deliziato con le sue interpretazioni, da direttore ospite ed ora da direttore onorario. Così lineare la regia e la coreografia di Danilo Rubeca, allusive e simboliche le scenografie di Domenico Franchi con quell’albero che si solleva a mostrare le sue intricate radici e che da nero va gradualmente rinverdendo o quella densa foschia dell’Erebo fino al chiarore del cielo stellato che annunzia questa anomala definitiva resurrezione che esula dalla tradizione mitica che conduceva all’Orfeo, che incantava le fiere e animava gli alberi e rappresentava con l’orfismo il mistero della morte, con quell’orrendo sparagmòs, il corpo dilaniato a pezzi. Perciò in sintonia con gli angoli domestici della casa che alludono alle scene le luci di Marco Giusti e il cappotto simbolo della presenza di Euridice. Alessio Rosati non ha azzardato costumi mitologici, ma si è adeguato ad una lettura odierna, con personaggi del nostro quotidiano, come in quella rappresentazione del 1793. Così sulla linea del balletto tradizionale l’invenzione del Jean-Sébastien Colau, nuovo Direttore del Corpo di ballo, étoile, coreografo e maîtrede ballet internazionale, che la città deve accogliere “con grande felicità”, nell’augurio di Lagalla, perché aggiunge Betta “la danza è vita, è un respiro di libertà”, Colau che così si propone: «uno dei miei doveri è rispettare la tradizione delle fondazioni lirico sinfoniche e coreutiche italiane e utilizzare il Corpo di Ballo del Teatro Massimo ad un degno e giusto valore… di concentrare gli spettacoli su balletti narrativi in ​​cui il pubblico possa immergersi e dove i ballerini possano onorare la loro formazione accademica, in particolare la danza classica, disciplina imprescindibile». Semplice la coralità adottata dal maestro Salvatore Punturo, secondo le indicazioni dell’autore. Voglio alla fine ricordare le riprese e gli accordi di questo mito che tanto fascino ha suscitato nei secoli, in questo amore forsennato dell’inventore della musica: ancora in quegli anni Il mito in Orfeo ed Euridice di Ferdinando Bertoni nel 1776 e poi di Johann Naumann nel 1786, L’anima del filosofo ossia Orfeo ed Euridice di Franz Haydn nel 1791, per passare all’Orpheus und Eurydike di Erbst Krenek nel 1926. In arte basta la bellezza olimpica delle statue di Antonio Canova.La riscrittura parte dalla celebre La favola d’Orfeo (1479-80) di Poliziano, al Poema a fumetti di Dino Buzzati (1969), fino al racconto L’inconsolabile all’interno dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese (1947), «Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “sia finita” e mi voltai»).

 

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