Una biografia esemplare

(Carmelo Fucarino)

Per cominciare, il titolo del libro, non oso chiamarlo romanzo, certo una biografia e come tutte opinabile nella configurazione dei fatti e dei giudizi. Il genere per se stesso si presta ad interpretazioni assai soggettive e lo esplicita palesemente la narrazione in prima persona. Senza tema di smentite vuol rappresentare una vita esemplare, del tipo degli exempla latini, al di là e al di fuori di una mesta ed acrimoniosa autodifesa. Ma qua non si sta a giudicare le opinioni dell’autore e le scelte di vita, ma ad esaminare dati reali nella problematicità e drammaticità dell’esistenza. Perché questa presentazione elogiativa di se stessi alla fine si basa su episodi tempi luoghi, i dati concreti di una particolare esistenza. Dicevo del titolo Colori nella penombra (Sce, Spazio cultura edizioni, 2018, Palermo). Qui Tommaso Di Gesaro rende in modo semplice ed icastico, in forma assolutamente epigrammatica la sua traiettoria di vita, anche se oggi non gli rimane neppure la penombra, forse addirittura il buio, che ritorna nella realtà in un nitido concreto elegiaco stupore di quei colori, tanto più vivi perché resi nella forma delle rêverie consolatoria e stupendamente beata, diciamo nella nostalgia, ma come ritorno ad un tempo beato, non propriamente doloroso ed angosciante, ma come porto sicuro in cui rifugiarsi e continuare a vivere. In questa sorte che si profetizza estrema, sentiamo nell’autore una insistenza ai colori, quella pace che gli dona la natura, i tramonti o l’azzurro profondo ed unico del cielo dei nostri paesi di montagna, le profonde vallate e colline, i fiori, lo spazio luminoso ed infinito. E mi identifico in lui nella magia di questa natura incontaminata in cui ho vissuto l’infanzia in un paese dell’interno. E la percepisco in modo più profondo attraverso quella appassionata rievocazione. Una bellezza stupita che per me era un fatto emozionale normale e che ora mi esorta a goderla consapevolmente come dono divino, gratuito, del quale non ci rendiamo conto, essendo un normale possesso quotidiano per i vedenti. Quello che mi ha stupito e profondamente turbato è stato quel volto sereno, atteggiato ad un sorriso di pienezza interiore, nella forma misteriosa agli angoli delle labbra, che mi è difficile descrivere nell’emozione che mi ha suscitato. Prima di leggere con ansia e curiosità il testo, questo ciceroniano visus (da video, “vedere”, così il derivato italiano “viso”) come “aspetto”, “apparenza”, l’ironia del termine latino che vuol pienamente descrivere il volto come si vede. Gli altri due momenti da rilevare e riportare sono il prologo e l’epilogo che circoscrivono gli episodi della sua biografia, nella forma della tragedia greca. Ma qua non si tratta di un prologo esplicativo di fatti accaduti anteriormente e di un epilogo celebrativo della divinità e della conclusione del dramma. Li accomuna la progettualità, la prospettiva dell’esistere e la conclusione moraleggiante, del genere didascalico con una formula quasi rituale: «me ne sto seduto all’ombra dei miei ricordi» (prologo), «Ed eccomi qui, seduto all’ombra dei miei ricordi» (epilogo). In entrambi è esplicitata apertamente la realtà, l’ombra assoluta che esclude l’allegria del titolo, di quei colori pur se nella penombra. E si confessa la realtà di un’esistenza ormai di non vedente. In entrambi la morale, la massima consolatoria all’inizio nella metafora del consueto “bicchier mezzo pieno” e alla fine in un gioco di specchi l’arrogante orgoglio di «diffondere un messaggio». E in questa esigenza soteriologica e di “libertà” («punti di riferimento importanti come il grande senso della libertà, intesa come valore assoluto e un sincero amore per la vita e l’umanità») sta la diversità della biografia e del progetto didascalico dell’avvocato Di Gesaro, Presidente della Sezione Territoriale di Palermo dell’antichissima Unione Italiana Ciechi. Per la sua diretta esperienza e per la conoscenza delle privazioni dei ciechi, ha voluto che questo messaggio di forza e di ardimento fosse fruibile proprio da loro. Così è stato allegato un magnifico audiolibro in CD il cui ricavato sarà dato in beneficenza. A dare maggiore enfasi e bellezza al testo la voce calda e suadente e il talento interpretativo di Laura Ephrikian, adusa a questo tropos di vita, lei che dedica metà dell’anno all’assistenza scolastica dei bambini e alla disperazione degli ultimi del mondo a Malindi, oggi salita all’onore (!!!) della cronaca per il rapimento della ragazza dell’ONG. I capitoli sono scanditi e commentati dalla chitarra di Salvo Capizzi.

A cominciare da quella straziante macabra descrizione della morte della sorella Yuki dal viso “sereno ed integro” nell’antologia autobiografica delle morti, angosciante e senza una luce di speranza, pur nel dichiarato intento di combattere quella tendenza a rimuovere l’idea della morte e i morti (Dacia Maraini, La grande festa, Rizzoli, 2011) all’ultimo libro di lotta, portato in giro per l’Italia e rinnovato in un docu-film del giovane George, disabile colpito dalla sclerosi multipla (Simonetta Agnello Hornby, Nessuno può volare, Feltrinelli, 2017), la recente narrativa è diventata dolente autobiografia, in questi due casi come progetti esistenziali, la paura della morte o la negazione materiale della “diversità”. L’autobiografia ci ha coinvolto e ha rimosso ogni ritegno e pudore, anzi ne fa un bestseller, se tu uomo sei stato stuprato da tuo padre. Tutte restano testimonianze angoscianti e senza speranza o autoesaltazioni di vittime umiliate dagli altri uomini o da morbi che non perdonano. Nella confessione di Di Gesaro non c’è invece autocommiserazione o sensazionalismo e la narrazione scorre nella vicenda delle difficoltà di una vita particolare e delle risorse e della ferrea volontà di superarle. Se l’Agnello ha voluto far toccare con mano la materiale difficoltà di movimento o di compimento delle più naturali esigenze di una vita normale, se la sua protesta si rivolge alle istituzioni che non si preoccupano o ignorano o dileggiano la “diversità”, Di Gesaro compie un’operazione più profonda. E ci assale lo stupore e lo scandalo che un cieco (odio le perifrasi che poi dicono in modo camuffato o edulcorato la stessa cosa, la falsa coscienza di un passato politically correct ad un recente irridente politically uncorrect) non possa svolgere le comuni mansioni di ogni cittadino. L’elenco delle ripulse è lungo e drammatico. La chiesa istituzionale che tarpa le ali al desiderio sacerdotale, un cieco prete sarebbe imbarazzante. Così la scuola stessa dell’Istituto dei ciechi che frappone ostacoli e lo relega in un semplice corso di telefonista. Un noto liceo classico che gli rifiuta l’iscrizione, che arditamente accoglie il Liceo Garibaldi. Se penso al suo stesso Istituto e al suo partito di affezione che ad un determinato momento lo escludono in quando cieco, mi vengono i brividi. Il testo è una galleria di affronti alla dignità umana, lo scandalo della esclusione del “diverso”, la cacciata aperta per cecità o per il pretesto di poca professionalità data la menomazione. Fino all’ultima sua scelta politica e ad un recente sindaco che gli chiede le dimissioni, dice lui, perché cieco e scarsamente efficiente per il suo deficit. Eppure il libro a differenza di tanti altri sul dramma e lo scandalo dell’emarginazione sociale in una società che si definisce democratica e socialmente aperta, fra speculatori del dolore che quotidianamente ci affliggono con la violenza sulla donna, soprattutto familiare, mentre si uccidono senza alibi le personalità di tanti offesi dalla natura. Perché è un delitto più leggero di uno stupro non riconoscere l’uguale dignità di un individuo? Eppure l’autore non accusa, non sparge lacrime di autocommiserazione, non usa sterili e in genere strumentali vittimismi e risale ogni giorno, dopo ogni sconfitta, dopo l’esclusione dalla Chiesa, dalla politica, dalla sua stessa Associazione, e si sente cittadino realizzato, mai sconfitto. Vorrei chiudere con una constatazione. La cecità delle coscienze è il segno di questa società, ed è questa la vera cecità. Eleggiamo persone irresponsabili per bassi istinti animaleschi, consideriamo il quinto comandamento mosaico, “non uccidere”, un’anticaglia, giustifichiamo le guerre e l’omicidio sotto la pretesa della legittima difesa, a somiglianza degli omicidi di stato, fatti per confini e predominio economico. E lo vogliamo estendere al singolo cittadino che ritiene più importante il portafoglio della vita. In una società in cui non si usa più “O la borsa o la vita”, ma si ruba con un impulso elettronico o con tassazioni improbe. Eppure, carissimi, nel tempo delle tenebre e dell’ignoranza, una decina di secoli prima di Cristo ogni regia onorava un cieco, perché non vedeva le brutture umane, ma prevedeva le sorti degli uomini, era dotato del privilegio della profezia. Tutti sanno di Omero, secondo una bizzarra etimologia “colui che non vede”, il cieco per antonomasia che cantò l’epos degli eroi, E sommo fra tutti, temuto e onnipresente, il tragico Tiresia, che l’uomo non volle ascoltare. Ma quelli erano altri tempi, i secoli dell’ignoranza e delle terebre, senza computer, poveretti, ma soprattutto senza cellulari e centinaia di faccine.

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