FESTE E FESTINO

(Francesco Paolo Rivera *)

Innumerevoli le feste che si svolgevano a Palermo, nel settecento, sia quelle popolari, sia quelle alle quali intervenivano l’aristocrazia, i rappresentanti dell’amministrazione e talvolta il Re, il Vicerè, l’Arcivescovo, il Pretore, il Presidente del Regno, il Capitano Generale, il Senato, insomma tutte le Autorità. Non si perdeva occasione per festeggiare, … la Corte Borbonica … (come i Medici in Toscana), governava – così si diceva – con le tre Effe “Forca, Fame e Feste” (1). Soppressa nel 1779 la festività dei primi di gennaio di ogni anno, per l’omaggio al Monarca (introdotta dai tempi di Carlo V°), a Palermo si festeggiava il Carnevale: maschere popolari (raffiguranti re, regine, animali, turchi neri come la pece) danzavano le tubiane (2), o facevano gli scalittari (3) o i pappiribella (4). In genere tali spettacoli animavano i quartieri dell’Albergheria, della Loggia, del Capo (Siracaldi e Kalsa). Carri allegorici, addobbati più o meno riccamente, salivano e scendeva per il Cassaro e per la Strada Nuova (via Maqueda).I ricchi, gli aristocratici organizzavano feste grandiose nei loro palazzi; molto applaudite le carrozzate per le principali strade di Palermo, dei Principi di Pietraperzia, di Paternò, di Gangi, di Valguarnera, precedute da soldati a cavallo, e da strumentisti a piedi, durante le quali venivano lanciati confetti agli spettatori. Tali festeggiamenti incuriosirono addirittura il Re Ferdinando, il quale volle partecipare di persona alla carrozzata del Carnevale del martedì grasso nel 1802. Si ha notizia anche del fatto (più unico che raro) che il P.pe Moncada di Paternò avesse aperto alle maschere popolari la sua villa, durante un Carnevale: lo stesso fece il Vicerè Marcantonio Colonna di Stigliano che accolse al Palazzo Regio migliaia di maschere di ogni classe sociale che vennero servite di ogni ben di dio, da camerieri vestiti da pulcinella. Il 18 febbraio 1799 il Capitano Giustiziere P.pe di Fitalia invitò la più alta nobiltà della Capitale a una festa da ballo al Palazzo Regio, permettendo espressamente ogni tipo di maschera. La festa, il cui inizio era previsto per le ore 2, pare che sia iniziata con ben due ore di ritardo a causa della difficoltà degli invitati a recarsi a palazzo, ma risultò di enorme successo sia per la presenza della migliore nobiltà che per i travestimenti degli invitati. In occasione di tali festività, tutti i maggiori teatri aprivano i loro battenti al fine di ospitare i veglioni che venivano organizzati. Il successo di queste manifestazioni e di queste feste, e anche il fatto che fossero aperte a tutti coloro che volevano e potevano parteciparvi, convinse un certo Cristoforo Di Maggio a predisporre un baraccone per balli e spettacoli carnevaleschi sul piano della Marina: la costruzione aveva una ampia platea, spazi per due orchestre, ottantaquattro palchi su due piani, molto ben curata. Vi si tennero ben quindici veglioni e giochi di ogni tipo (sfide cavalleresche, finti assedi e finti assalti a torri saracene) … gli stranieri che abitavano in Città o che vi transitavano … “non poterono fare a meno di confessare che la veduta di tal ridotto fu sorprendente, a segno che in tutto il mondo non può darsi l’eguale” (5).  Anche villa Giulia fu teatro di questo tipo di manifestazioni, (con notevole vantaggio per le casse comunali), insomma, in quanto a feste, la città di Palermo non ha avuto eguali nella storia (anche … il taglio della testa di qualche condannato a morte … era una buona occasione per far festa!). Da non dimenticare, durante le festività pasquali, la “Fiera dei crasti” durante la quale si sgozzavano migliaia di castrati (nella zona compresa tra piazza S.Oliva, lungo i muri del Firriato di Villafranca, piazza Castelnuovo, via Ruggero Settimo); a mezza quaresima si impiccava “’u Nannu” (6); ai primi di maggio la festa di Santa Cristina (antica Patrona di Palermo), con rinomati mercatini che attiravano le signore a visitarli, … era una buona occasione per fare sfoggio delle loro toilettes (7). Oltre alle grandi feste civili e religiose, molte altre manifestazioni si tenevano in città, sia di natura religiosa sia di natura popolare:

– il mercato degli animali dei Porrazzi,

– la benedizione degli animali da tiro e da sella (avanti la chiesa di S.Antonio Abate, quella dell’Ecce Homo),

– la festa dei pescatori dal 24 al 29 giugno sulla spiaggia vicino al quartiere della Loggia. Durante questa festa si organizzavano gare di corsa alla quale partecipavano oltre agli associati alla corporazione dei pescatori anche associati ad altre corporazioni, e spesso, questa competizione, se non dava luogo a fatti di sangue tra i partecipanti e tra gli spettatori e i tifosi delle diverse fazioni, si concludeva, per i più facinorosi, con qualche “soggiorno alla Vicaria”;

– la gita a Monreale alla vigilia della festa per la nascita di Maria,

– in primavera la processione della confraternita della Carità nel giorno di S. Bartolomeo,

– la processione del Corpus Domini ai primi di giugno con l’intervento delle autorità politiche e della magistratura (Vicerè, Senato, Pretore, Capitano d’armi, Vicario generale) e lo schieramento delle forze armate con il Maresciallo di campo sul piano del Palazzo, la visita alle carceri della Vicaria con la partecipazione della nobiltà e di tutte le autorità politiche e militari, durante la quale il Vicerè (o chi per lui) liberava alcuni carcerati, riduceva la pena di altri, e in armonia con le esigenze economiche dello Stato, rimetteva in tutto o in parte debiti di alcuni condannati,

– la celebrazione del Vespro durante la quale il Magistrato civico vuotava un sacco pieno di monete di argento (250 scudi) destinate al culto della chiesa (8).

 Ma la festa più importante di tutte era la Festa di Santa Rosalia: “‘u fistinu”.

Descrivere questa festività, per Palermo, … chi non la conosce …? … “raccontare i cinque giorni del Festino” … è una cosa superflua! … molti viaggiatori stranieri la descrissero per averla vista, avendovi partecipato, o per averne sentito parlare.

Patrick Brydone (9) in una lettera datata 21 maggio 1770 definiva il Festino “lo spettacolo più bello di Europa” e, dopo avervi partecipato lo descrisse accuratamente;

Jean Pierre Houel scrisse che “per questa solennità si accorre a Palermo da ogni parte della Sicilia, del Regno di Napoli e anche dall’Europa … la maggior parte dei forestieri che sono in Italia non lasciano di passare lo stretto per godersela.”;

l’Abate di Saint-Non (10) ne riportò disegni fedelissimi degni dell’entusiasmo devoto che egli trovò nel luglio 1775;

lo stesso Goethe (11), recatosi a visitare la madre e la sorella di Giuseppe Balsamo (12), nella sua casa natale (sita in vicolo Cagliostro, nei pressi di Ballarò nel quartiere dell’Albergheria), ebbe dalle due donne il suggerimento di ritornare a Palermo nei giorni meravigliosi del festino “non essendo possibile vedere cosa più bella al mondo”.

Colui che descrisse questa festa con dovizia di particolari, ma anche con stupore e ammirazione sia per il fasto, la grandiosità, la ricchezza e la magnificenza della manifestazione che per la sicurezza e per l’ordine in cui si svolgeva, fu sicuramente il francese Jean Pierre Houel.

Si cercherà, quì di seguito, di sintetizzare la descrizione fatta dall’illustre cronista degli avvenimenti ai quali egli assistette nei cinque giorno del Festino dell’anno 1776.

Il primo giorno (10 luglio) il carro trionfale, (ogni anno costruito, sul piano della Marina, diverso da quello dell’anno precedente), sul quale veniva esposta la statua della Santa che brilla ai raggi del sole di luglio (raffigurata giovanissima, bella e angelica, con vesti suntuose e con gioielli preziosi ex-voto), aveva dimensioni di 80 piedi di altezza, 40 di lunghezza e 20 di larghezza,  aveva quattro ruote, era trainato da 40 mule bardate e condotte da 20 postiglioni in livrea (in stile spagnolo),  preceduto da una compagnia di dragoni a cavallo, otto trombettieri, due ufficiali a piedi con stendardo e insegne, quattro scudieri, quattro dignitari del Senato in livrea, con mantello nero e bandiere, otto dragoni a cavallo chiudevano il corteo. Sul carro, illuminato di sera da innumerevoli torce sotto il cielo stellato, un gruppo di musici suonavano. Chiudeva il gruppo il Maestro delle Cerimonie a cavallo, con mantello nero e suntuoso abito in stile spagnolo.

Verso le 5 – le 6 pomeridiane, un colpo di cannone sparato dalla Marina, comunica che il corteo era pronto per la processione, un altro colpo di cannone, sparato dal Piano del Palazzo, dava inizio alla parata: il corteo, partendo da Porta Felice, ad andatura lenta lungo il Cassaro, non appena arrivato avanti il Palazzo del Vicerè, veniva acclamato dalla folla; iniziava, subito dopo, lo spettacolo dei fuochi pirotecnici della durata di circa mezz’ora.

Il secondo giorno, alle due prima di notte, una cannonata, da Porta Nuova, alla quale rispondeva un’altra cannonata da Porta Felice, dava inizio alla corsa dei cavalli: il vincitore veniva premiato con il palio (di broccato d’oro) e con la bandiera. Calata la notte, dopo un’altra ora, con uno scambio di cannonate, il carro da Porta Nuova si muoveva verso Porta Felice, soffermandosi avanti i palazzi dei notabili, in segno di omaggio.

Il terzo giorno il carro faceva la strada dalla Marina al Palazzo. Le imbarcazioni in rada venivano tutte illuminate. Il Vicerè si imbarcava su una feluca, illuminata e addobbata a festa, con la quale faceva un lungo giro nel Golfo, quindi, sceso dalla feluca, con il seguito di nobili e della Corte, alla luce delle fiaccole, ritornava a Palazzo.

Il quarto giorno: ancora corsa di cavalli … si scommetteva sui fantini che avevano partecipato alle gare precedenti. Poi tutti in Cattedrale per la cerimonia religiosa, ove oltre al simulacro della Santa, vi erano molte piramidi che portavano impresse le effigi di altri Santi. Tali piramidi fissate su appositi carri (le, così dette, ”Vare”) venivano scortate dalle Confraternite religiose.

Il quinto e ultimo giorno: nuova corsa di cavalli; verso sera i fedeli e le Confraternite con le “Vare” andavano in processione alla Cattedrale per assistere al Te Deum.

A conclusione di tutti i festeggiamenti sopra riassunti, si svolgeva una cerimonia, alquanto singolare: la “pericolosissima” corsa dei pescatori, i quali, in numero di trentadue, urlando come forsennati e accompagnati dalle urla della folla, trasportavano di corsa le statue dei santi Cosma e Damiano (di dimensioni naturali) piantate sulla “macchina” (una specie di barella a quattro aste in croce), trainata mediante una fune che serviva a evitare che la macchina si rovesciasse, e che, giunta in mezzo al Cassaro, veniva staccata dalla fune – e sempre velocemente – fatta girare. Durante tutta la corsa, un numero elevato di giovani donne,  sventolando grembiuli, scialli e pezzi di stoffa correvano ai fianchi dei portatori, cercando di dare loro refrigerio. La corsa, dopo una breve sosta di riposo, veniva ripetuta più volte in mezzo all’incitamento e alle urla degli spettatori. Naturalmente tutte le manifestazioni, durante i cinque giorni della festa, erano partecipate da innumerevoli spettatori, gente che assisteva ai margini delle strade alle gare podistiche, alle corse dei cavalli, alle processioni, tenuti a distanza di sicurezza sia da un’apposita catena che correva parallela alla strada, sia da attenti gendarmi a piedi o a cavallo sempre pronti a intervenire in caso di pericolo per gli spettatori o in caso in cui qualcuno progettasse piccoli reati; si assisteva, plaudendo. alle parate militari o al passaggio delle carrozze del Vicerè, dei nobili e dei personaggi investiti di alti poteri; gli aristocratici, i funzionari e coloro che ne avevano la possibilità partecipavano alle sfilate a cavallo o sulle carrozze padronali, sfoggiando – specie le signore dell’alta società – le elegantissime toilettes (secondo la nuova moda francese) che indossavano per l’occasione; i patrizi aprivano le porte delle loro ville e dei loro palazzi dove offrivano ricevimenti ai loro invitati, insomma alla festa religiosa si accompagnava la festa di tutta la città. Spettacolo che faceva parte della festa, e che divertiva la folla, era il corteo dei Contestabili del Senato, preceduto dai tamburini a cavallo che battevano, con le bacchette, un colpo a destra e uno a sinistra sui tamburi che portavano ai due fianchi del cavalli (forse è meglio dire dei “ronzini”) che cavalcavano: questo battito monotono dei tamburi e gli addobbi di gala dei Contestabili (sempre di foggia spagnola), suscitavano l’ilarità del popolo, che partecipava alla manifestazione, e i ragazzi di strada finivano per trainare per le redini i poveri quadrupedi, che a stento stavano in piedi. Spesso durante tali manifestazioni, si rischiava l’insuccesso perchè si verificavano imprevisti: in occasione della processione, anche se i “facchini”, all’uopo istruiti, bagnavano in continuazione le ruote della pesantissima “macchina” onde evitare che per l’attrito, bruciassero, talvolta pare che la “macchina” si fermasse, tra gli strilli della gente e dei soldati che cercavano di tenere lontani i ragazzacci molesti, il tutto tra i battimani degli spettatori e il lancio, dai balconi, di fiori e confetti. Qualche altra volta i quadrupedi adibiti al traino, sia per l’enorme peso, sia per il pessimo lastricato del Cassaro, non avevano la forza di trainare la “macchina”, che superava l’altezza dei fabbricati e che urtava i muri o sprofondava nelle buche stradali, soprattutto perché gli impresari del trasporto che fornivano i quadrupedi, allo scopo di conseguire maggiori guadagni, reclutavano nelle campagne qualsiasi ronzino o mulo che riuscissero a rintracciare anche se ormai si sostenevano a stento sulle zampe. Da un documento del 1791 il barone Giuseppe Malvica e vari ortolani implorarono il Vicerè che non più li obbligasse a prestare i loro quadrupedi per tali evenienze. Ciò induce a pensare che i quadrupedi per il traino venissero anche “presi in prestito, o (forse è meglio dire) requisiti” per ordine delle autorità”.  Durante queste manifestazioni, attori improvvisati, indossando i costumi adatti,  recitavano – come meglio sapevano fare – scene sacre che si riferivano alla vita di Gesù o di qualcun altro Santo, il tutto in perfetto silenzio … ma ostentando cartelli sui quali scrivevano i nomi che permettevano di individuare i personaggi rappresentati e l’oggetto della recita. Nel 1780 venne nominato Vicerè il marchese Domenico Caracciolo di Villamaina, Ambasciatore del Regno di Napoli a Parigi, ove, sia per la sua funzione diplomatica, ma anche (e forse soprattutto) per la sua partecipazione alla vita brillante della capitale francese, era molto ricercato nei salotti dell’alta società. Il M.se non fu molto contento della sua nuova prestigiosa carica, tanto che si trasferì (o fu costretto a trasferirsi) a Palermo soltanto nel 1781. Durante quel periodo storico si sviluppava in Francia quel movimento politico, sociale e filosofico, nato in Inghilterra ed estesosi poi in tutta Europa, denominato “illuminismo”, che, come è noto, rifiutava ogni religione rivelata e sopratutto il cristianesimo (ritenuto l’origine degli errori e delle superstizioni). Tale pensiero filosofico, per via delle sue frequentazioni, faceva parte del bagaglio culturale del neo eletto Vicerè; e, quindi, lo stesso, non appena giunto a Palermo, non accolse favorevolmente la Festività religiosa di Santa Rosalia, che addirittura aveva la durata di ben cinque giorni e che comportava, tra l’altro, un notevolissimo impegno economico per le casse comunali della capitale dell’isola. Pertanto, nell’ approssimarsi del mese di luglio, emanò una ordinanza mediante la quale ridusse a tre i giorni la durata della festività. La cosa non solo non piacque alla popolazione palermitana ma provocò quasi una rivolta popolare: tanto che il Senato e la cittadinanza protestarono, addirittura attaccando manifesti per le strade con la scritta “o festa o testa” (naturalmente la “testa” in questione era quella del Vicerè). Malgrado ciò il Vicerè Caracciolo rimase impassibile ad ogni tentativo di risoluzione bonaria della questione, e il Senato si trovò costretto a inviare al Re, a Napoli, un memoriale, appositamente compilato da don Emanuele La Placa, grande erudito della storia municipale palermitana, nel quale, evidenziando che le feste si erano sempre svolte per la durata di cinque giorni, “esse rispondendo al sentimento religioso della città, hanno sempre dato lavoro agli artisti e agli artigiani, guadagno ai commercianti, lustro alla Capitale e sono state sempre frequentate da un considerevole numero di regnicoli e di forestieri. Sarebbe stato un grave errore di ridurle, … necessario, invece, il mantenerla come in passato.” I palermitani restarono in trepidante attesa del responso del Re, mentre il Vicerè Caracciolo, sicuro del fatto suo, inveiva contro quegli incoscienti, retrogradi, indegni dei tempi e del progresso filosofico d’oltralpe. Tuttavia il provvedimento venne tacitamente abrogato, con giubilo della popolazione e di tutti gli Amministratori locali, ma con grande disappunto del Vicerè, il quale – pare che abbia giurato di farla pagare cara al Pretore, ai Senatori, ai nobili, al clero … insomma a tutti i palermitani … Sua Maestà compreso … – tanto il giorno fissato per  il Festino era molto vicino, quindi, per mancanza di tempo, sarebbe stato impossibile costruire il carro e organizzare tutte le altre opere di contorno della festa …: e, invece, no! … i palermitani, moltiplicando i loro sforzi, lavorando alacremente giorno e notte, costruirono il carro, … più bello che mai, … che nel pomeriggio dell’11 luglio saliva dalla Marina a Porta Nuova e la sera del 14 tornava a Porta Felice, tra il giubilo dei cittadini e la rabbia del Vicerè. Naturalmente anche il Festivo di quell’anno si svolse con le corse dei cavalli nel Cassaro, con la solenne Cappella Reale nel Duomo, con la lunga processione delle Confraternite, delle cento vare e cilii (13), della processione degli ordini religiosi e dell’urna contenente i resti della Santa patrona della Città, processione che attraversava tutta Palermo, tra due ali di folla; anche in quell’anno i monasteri aprirono ie loro porte offrendo rinfreschi e dolci ai membri del Senato; il Pretore offrì il ricevimento di rito nel Palazzo senatorio, il Vicerè nel Palazzo reale, l’Arcivescovo nell’arcivescovato, così come sempre si era fatto. Offrirono ricevimenti il Principe conte di S. Marco, il duca di Cannizzaro, il Principe di Trabia, i pretori degli anni precedenti (il cui mandato era scaduto); il P.pe Francesco Maria Venanzio d’Aquino di Caramanico si assunse l’onere di organizzare tutta la manifestazione e l’arcivescovo Sanseverino, il più alto prelato siciliano, rese gli onori dovuti a tutte le autorità.

……

*) Lions Club Milano Galleria 108 Ib-4 – matr. 434120

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  • a Firenze, in realtà, le “tre effe” avevano il significato letterale di “Forca, Farina e Feste”; mentre, in origine, lo slogan borbonico era “Forca, Fame e Feluche”. Secondo qualche autore, pare che lo slogan “Forca, Fame e Feste” fosse stato coniato dalla “propaganda piemontese” intorno al 1860, per giustificare agli occhi dell’Europa che il Regno del Piemonte aveva effettuato l’invasione del Regno delle Due Sicilie al solo fine di “liberare le popolazioni siciliane e napoletane dal Giogo della Monarchia assoluta dei Re Borbonici” i quali opprimevano i loro sudditi, trattandoli come schiavi. Sicuramente i sudditi del Re Borbonico (cittadini dello Stato più ricco e più moderno – a quell’epoca – dell’intero bacino del Mediterraneo e dell’Europa occidentale), non guazzavano nell’oro e non godevano di molta libertà, ma è storicamente provato che il vero scopo dell’invasione piemontese, che si intendeva occultare, era quello di impadronirsi dell’enorme patrimonio della Corte Borbonica, al fine di rimborsare i debiti contratti per la guerra di Crimea e per la seconda guerra di indipendenza;
  • mascherata plebea composta di molte persone vestite con abiti a colori vivaci che danzavano al ritmo di un tamburo dal cui suono “Tu-Bi, Tu-Bi” è nato il nome di “tubiana”;
  • maschere che attraverso un arnese a forma di scaletta, arrivavano fino al secondo piano dei palazzi, per regalare ad amici e parenti, fiori, confetti o una boccetta “nastrata” (con i nastri) contenente liquore dolce;
  • sempre a mezzo di una scaletta, le maschere facevano contorsioni e finte cadute per divertire il pubblico;
  • come riferisce il poeta e drammaturgo August Creazè de Lesser, nel suo “Viaggio in Italia e in Sicilia” negli anni 1801 e 1802;
  • l’impiccagione del simulacro del “Nannu” in piazza Vigliena, era impersonata da un fantoccio raffigurante una vecchia magra megera;
  • l’incisore, pittore e architetto francese Jean Pierre Houel, che soggiornò in Sicilia per circa tre anni, nel “Voyage pittoresque des Iles de Sicile, de Malte et de Lipari” annotò “La città nella quale le donne godono della maggiore libertà, nella quale esse sono le meglio circondate da artisti, da amatori, da gente industriosa, deve esser quella del tatto più fine, del gusto meglio esercitato, delle idee più sicure. Benchè naturalissima, l’arte di piacere ha come qualsiasi altra arte i suoi principi e le sue leggi.”;
  • l’indomani della funzione, i gesuiti, prima e, dopo la cessazione dell’ordine, gli ecclesiastici, provvedevano a spazzare il Cassaro, ove la statua della Madonna sarebbe dovuta transitare. Le massime autorità civili, militari ed ecclesiastiche, in pompa magna, portavano in processione il simulacro in argento della Madonna sul “ferculo” (dove si portava in trionfo un oggetto di culto), per otto sere e notti i devoti, in “peduli” (specie di calzerotti) o scalzi, dalla chiesa della Madonna andavano in pellegrinaggio fino al Duomo attraversando il Cassaro addobbato di “mazzuna” (mazzi di fiori artificiali), illuminato dalle torce, recitando le orazioni, tra venditori ambulanti che “abbanniavanu” petrafennula, zammù e “’mmiscu” (liquore a base di rosolio, alcool ed erbe aromatiche);
  • scienziato, militare e viaggiatore scozzese, autore di “A tour throug Sicily and Malta”:
  • Jean Claude Richard de Saint-Non, incisore, urbanista, archeologo e disegnatore francese (1727.1791) autore di “Voyage pittoresque ou description du Royaumes de Naples et de Sicile»;
  • Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) visitò l’Italia e la Sicilia tra il 1786 e il 1788 e di quel viaggio scrisse “l’Italia senza la Sicilia non lascia nello spirito immagine alcuna. E’ in Sicilia che si trova la chiave di tutto … la presenza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra … chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita.”;
  • Giuseppe-Giovanni-Battista-Vincenzo-Pietro-Antonio-Matteo-Franco Balsamo detto anche Alessandro, conte di Cagliostro (1743-1795) conosciuto in tutte le Corti europee, dove soggiornò a lungo spacciandosi per nobile, per medico, per mago, per alchimista e guaritore, ma vivendo, da avventuriero, di imbrogli, di truffe e sotterfugi vari, fino alla sua morte nelle carceri della fortezza di San Leo il 26 agosto 1795;
  • I Cilii erano grandi ceri decorativi sostenuti da fusti di legno ov’è istoriata l’immagine della Santa.

 

 

 

 

 

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