L’UNIVERSITÀ

Francesco Paolo Rivera*

 Il 21 luglio 1773 con bolla papale venne soppresso l’ordine dei Gesuiti. Tale provvedimento, esteso a tutte le comunità dell’ordine, fu appoggiato dai Borboni, ma, come succede a seguito di improvvise rivoluzioni politiche, morali o religiose, che non previdero riforme nel campo dell’insegnamento, comportò la paralisi della istruzione. (1) In conseguenza della rivoluzione popolare del 1647, il popolo palermitano – adunato avanti la Chiesa di San Giuseppe – aveva chiesto al Senato e al Vicerè – anche la concessione di benefici relativi alla pubblica istruzione, tendenti a ottenere che venissero aperti “… studi pubblici di tutte le professioni in loco ben visto della città …” e che “la città ne scegliesse i maestri.” Le scuole secondarie e superiori erano state tutte in mano dell’ordine dei Gesuiti e con il loro allontanamento, oltre agli studi ecclesiastici e teologici vennero meno anche materie come la filosofia, la giurisprudenza e la medicina, che erano strettamente collegate agli studi ecclesiastici. Il Senato, allora, cercò di ottenere dal Vicerè la estensione dei privilegi, fino allora goduto dai Gesuiti, però trovò notevoli ostacoli in quanto, specie per quanto riguardava il diritto civile e canonico e la medicina e la chirurgia, in queste materie la Città di Catania aveva goduto in precedenza da innumerevoli anni di tali privilegi e la creazione di tali facoltà di insegnamento rischiava di far nascere malumori tra i ministri. Se la Città di Catania aveva la prerogativa dell’insegnamento superiore e delle lauree, Palermo aveva l’incarico di provvedere ai concorsi alle cattedre della prima, e, sembrerebbe che i responsabili del Ministero di Palermo nominassero professori di Catania di scarsa preparazione al fine di discreditare quella scuola (2). Gli studenti dell’Accademia degli Studi di Palermo si sottraevano al triennio di Catania mediante dispense, che, con futili pretesti, riuscivano ad ottenere. Nell’ultimo ventennio del XVIII° secolo, sotto l’impulso di menti elette e dell’intervento del Governo locale (3), si cominciò a organizzare un rinnovamento intellettuale nel campo dell’istruzione superiore, con un piano presentato per raddoppiare le materie, si aggiunsero nuove discipline. In pratica nell’agosto 1805 (4) la “Accademia panormita degli Studi” venne trasformata in una vera e propria Università, ottenendo la istituzione di altre venti cattedre: tre per Teologia, quattro per Diritto, sei per Medicina e sette per Filosofia, che – quanto meno – consentirono all’Università di Palermo un adeguato livellamento con quella di Catania.  Per conseguire la laurea in Teologia occorreva frequentare le lezioni di Storia ecclesiastica e di Teologia dommatica e morale non tomistica (5) per cinque anni; per la laurea in Legge si frequentavano le lezioni di Diritto naturale e pubblico, di Economia, Agricoltura e Commercio. La laurea in medicina si conseguiva seguendo i corsi di anatomia, dissezione, chirurgia, ostetricia, chimica, farmaceutica, medicina teorica e pratica; quella in filosofia comportava lo studio della Logica; quella in Metafisica lo studio della botanica e della storia naturale; quella in fisica sperimentale lo studio del greco e dell’ebraico, e così via, tralasciando magari lo studio delle pandette, del diritto criminale, la storia civile … per il conseguimento della laurea in giurisprudenza. Naturalmente, con l’andare del tempo, si aggiunsero via via altri corsi di studio. I docenti assunsero l’appellativo di “lettori” (6), ai quali veniva corrisposto un salario annuale di cento onze, per gli antichi insegnanti, e di sessanta – ottanta onze per i nuovi assunti … che pare fosse considerata, nel settecento, ben poca cosa. Malgrado le basse retribuzioni, molti insegnanti erano abbastanza rinomati: l’abate Francesco Carì (1726-1798) per la teologia dogmatica, l’arch. Giuseppe Venanzio Marvuglia (1729-1814) per l’architettura, il giurista Carmelo Controsceri (1780) per l’etica, il medico Rosario Scuderi per la patologia, il medico (poeta, abate) Giovanni Meli per la chimica, frate Bernardino d’Ucria (il cui vero nome era Michelangelo Aurifici – 1739-1796) e Giuseppe Tineo (1756-1812) per la botanica. Il Vicerè Domenico Caracciolo si diede molto da fare nella ricerca (con scarsa fortuna) di docenti illustri di altre università (Marmontel, Lagrange, Spallanzani, Oriani). Con l’ampliamento delle facoltà aumentarono anche i discenti, alla fine del settecento erano (7) circa 850, nel 1800 erano 896 (84 in Teologia, 152 in Medicina, 324 in Filosofia, 336 in Legge). Il Governo autorizzò l’uso delle antiche insegne dottorali (la cintura sopra gli abiti civili, la toga e il fiocco sul cappello – cremisi per Teologia, verde per Filosofia … -, l’anello). Per quanto riguarda la vita in ambito universitario, pare che il Rettore fosse molto attento nella sorveglianza dei corsi di studio e anche nella disciplina in ambito scolastico: i discenti intervenivano puntualmente alle lezioni, non erano segnalate azioni contro il buon costume, addirittura erano tenuti agli atti di pietà obbligatori, come la messa alla domenica, il catechismo e le preghiere (anche se qualche autore non fosse molto convinto circa la sincerità di tale comportamento) (8). Nel 1797, a seguito della morte del prof. Stefano Pizzoli, titolare della cattedra di medicina pratica, venne chiamato il medico di Modica, Baldassare Cannata (figlio dell’illustre medico di medicina pratica Gaspare Cannata) il quale, anche se stimato professionista, poiché non condivideva la dottrina di Brown (9) che, specialmente nell’ambiente studentesco, era “di gran moda”, venne fischiato. Ma Giuseppe Asmundo Paternò, Presidente del Regno di Sicilia, mons. Alfonso Airoldi giudice della R. Monarchia e il giurista Tommaso Natale, deputato dell’Università di Palermo (che con fermezza svolgevano il controllo disciplinare nell’ambito dell’Ateneo) non solo non cedettero ai fischi, ma, introdotti nell’Università un buon numero di birri, fecero arrestare i tumultuanti … “così l’ordine venne ristabilito …!”

*) Lions Club Milano Galleria – distretto 108 Ib-4

Note:

  • Nel trecento l’Amministrazione di Palermo richiese al sovrano, Federico III di Aragona (o di Sicilia o di Trinacria – 1273-1337) la creazione di una Università per lo studio del diritto e della medicina, ma il re rifiutò; nel quattrocento sorsero a Palermo lo “Studio francescano” e lo “Studio generale”, i quali permettevano di conseguire la laurea, però in altre università. Nel 1550 fu costituito il “Collegio massimo dei Gesuiti”, che rilasciava lauree in teologia e filosofia, che assunse un ruolo egemone nell’istruzione;
  • Secondo l’opinione dell’umanista Giovanni Agostino De Cosmi (1726-1810), “… i professori interinarj provveduti dal Ministero di Palermo … furono la spazzatura di tutta la gente inutile di Palermo, vecchi decrepiti, … in otto anni hanno finito di discreditare le scuole di quella infelice Università.”;
  • Il 5 novembre 1779, negli stessi locali ove era il Collegio Massimo dei Gesuiti sorse la Regia Accademia degli Studi S. Ferdinando, la quale rilasciava soltanto lauree in teologia e filosofia (malgrado vi si insegnasse anche giurisprudenza e medicina).
  • Su decisione di Ferdinando III° di Borbone. I locali vennero trasferiti, nel sito attuale, nell’ex Convento dei Teatini, in via Maqueda;
  • Era il pensiero filosofico di S. Tommaso d’Acquino, considerato il più significativo dell’età medioevale;
  • Mentre in tempi moderni il “lettore” è un docente a cui è affidata temporaneamente una cattedra, in quell’epoca la denominazione veniva usata per il docente titolare.
  • Secondo il sac. Isidoro Carini (1843-1895), storiografo, paleografo, che partecipò alla fondazione della Società Siciliana di Storia Patria;
  • Anche a quell’epoca gli studenti facevano le “scappatelle”; per i casi più gravi bastava l’ammonizione e la espulsione, ma nell’ottocento addirittura esisteva, entro l’ateneo, un ufficio destinato a un Funzionario che aveva incarico di reprimere con la forza qualsiasi eccesso.
  • Era un medico scozzese (1735-1788) il quale aveva elaborato una teoria medica basata sulla eccitabilità del cervello e delle fibre muscolari da parte dell’ambiente esterno (se gli stimoli esterni vengono meno, si configura uno stato patologico), teoria fortemente in contrasto con le concezioni mediche di quell’epoca, ma che riscuoteva grande interesse tra i discenti; teoria (detta dell’Eccitabilismo compendiata nella sua opera “Elementa medicinae”), e ripresa, in Italia, da Giovanni Rasori (1766-1837) medico e teorico della medicina italiana, protagonista del mondo culturale italiano di ispirazione giacobina.

 

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