EDIPO O L’ENIGMA DEGLI ENIGMI

Carmelo Fucarino

Nessun dramma (“azione scenica”) ha saputo cogliere nella forma assoluta la privazione della responsabilità umana che nell’era delle riforme religiose cristiane diventerà il discrimen fondamentale della libertà esistenziale tra servo o libero arbitrio. Tuttavia nessun poeta è riuscito a rappresentare in forma così enigmatica e abissale questo enigma del “fare” e dell’”essere”, del voler sapere ed indagare. Perciò le barocche ricostruzioni secentesche dello Shakespeare, idolo della tracotante Albione, ci appaiono come drammi da romanzi di appendice, pur con il suo invasivo “to be or not to be”, tra fantasmi della coscienza e montagne di cadaveri. Sulla scena davanti alla regia di Tebe, fra bende e ramoscelli di ulivo, nel breve volgere di un giorno si realizza e chiude l’intera vita di un uomo, prototipo della volontà di marcare il proprio destino, la misteriosa ed incombente Týche, e incapace con la sua hýbris, la tracotanza, oggi ignorata e dismessa dall’uomo che pretende di piegare sé e la phýsis alla sua scienza perfetta, l’orribile dea che lo spinge, nonostante le promesse, a prostituire la madre-terra che lo ha generato e nutrito. Tutto è sviluppato nelle vicende del ciclo tebano, da quel Laio fondatore, al mancato assassinio di Edipo, esposto e “dai piedi gonfi” (da οἶδος, “rigonfiamento” e πούς, “piede”), alla precisa cronologia della vita, proposta e scandita dall’enigma della Sfinge, alla sua beatitudine del postumo Edipo a Colono nel mutamento bramato della Týche, svanendo nel boschetto sacro delle Eumenidi, fino alle tragiche sequenze che non risparmiano neppure la discendenza, da quell’Eteocle e Polinice in guerra per il potere sette contro sette, alla grandiosa rivoluzionaria Antigone. Il ciclo dell’Edipodia (Paus. IX, 5, 10s.) o dei Labdacidi è l’onda burrascosa della vita con l’incerto agire umano, nella volontà di creare una legge che superi le discrasie tra profezie e realtà, tra giusto e ingiusto, tra potere e sue leggi in antitesi ai sentimenti propriamente umani. Siamo su altra sponda e con abissali differenze rispetto al familiare ciclo umano di Agamennone, dio pàredros della terribile potnia theron, la signora delle fiere Clitennestra, toro da lei sgozzato, nel proseguire delle vendette delle Erinni preindoeuropee. Ignota la data della rappresentazione nelle Dionisiache alle falde del Partenone. Certamente siamo nella prima fase della Guerra del Peloponneso che con acribia ha immortalato l’interessato Tucidide, tra il 430 e il 420 a.C. Del Corno propone il 425 per una supposta parodia di Aristofane (Acarnesi, 27), qualcuno si spinge al 411 a.C. sulla supposta ripresa della critica di Anassagora agli oracoli o la hýbris, riferita ad Alcibiade. In altri termini le ipotesi si estendono a tutto il trentennio dell’infinita guerra che avviò il metodo delle guerre per interposte colonie e cancellò Atene da potenza militare, ma anche da epicentro della cultura ellenica e pertanto occidentale, in confronto a Sparta. Come si evince, la collocazione storica della presentazione nel teatro di Dioniso è stata una palestra degli storici. Fatto secondario, se si richiama la stima di Aristotele che la cita spesso e il suo elogio a proposito dell’efficacia della “peripezia” nel racconto del messo, che, invitato per liberare Edipo, ottiene l’effetto contrario, tecnica resa “più bella” dall’anagnorisis o “riconoscimento” (Poetica, 1452a-b) oppure il metodo della messinscena che suscita orrore e pietà (1453 b) o la sconoscenza di azioni orribili. Dato incontrovertibile per un sicuro terminus post quem è ad ogni modo l’avvio della tragedia con la realtà della peste di Atene, anatomizzata nei sintomi e nelle conseguenze da Tucidide per esperienza diretta, protagonista e chiave di lettura e di interpretazione della colpa di Edipo patricida e reo di incesto. Essa spiega e muove tutta l’azione, ne giustifica l’indagine scientifica dell’origine. Perché quella strage in cui non si distinguono colpevoli e innocenti, perché quel contagio che coinvolge tutta l’esistenza, dall’essere umano agli animali alle piante? Come l’innocente della peste manzoniana di Milano (Promessi sposi, cap. XXXIV, Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci […] addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme). È il λοιμός   ἔχθιστος  il miasma assai odioso, la contaminazione, non consueta, come potevano essere le mestruazioni delle donne, ma inspiegabile ed eccezionale. Preferisco ancora il fascino della lingua di Ettore Romagnoli che per prima risuonò su queste pietre disconnesse, camuffate da difensivi tavolati:

                                              «Troppo

   è già sbattuta dai marosi, e il capo

   più non riesce a sollevar dal baratro

   del sanguinoso turbine: distrutti

   i frutti della terra ancor nei calici:

   distrutti i bovi delle mandrie, e i parti

   delle donne, che a luce più non giungono:

   e il dio che fuoco vibra, l’infestissima

   peste, su Tebe incombe, e la tormenta».

Parte da qui tutta l’inchiesta di un perfetto ed inimitabile romanzo di indagine criminale, la prima della letteratura occidentale, quando l’avviò l’orrido Poe fino all’esondante marea dell’odierna piatta narrativa poliziesca e di horror.

Tutti conoscono lo sviluppo fino alla tragica impiccagione extra scoenam e all’accecamento di chi non ha conoscenza e pretende conoscere la verità dell’esistere. Sublime enigma creativo di un genio al quale tanti hanno provato a dare una propria personale versione. Mi piace ricordare l’opera-oratorio di Stravinskij su testo di Cocteau e traduzione latina di Daniélou, genere tale da potere essere eseguito anche in forma concertistica, con quei coreuti incappucciati nell’immobilità ieratica antica dei prosopa, i “personaggi” classici. Oppure potrei esemplificare con quell’Edipo re, a noi più presente nella versione filmica di Pier Paolo Pasolini del 1967 con Franco Citti fra le dune e i ruderi di Ouarzazate, nella triplicazione cronologica dell’oggi nel prologo dei prati di Casarsa a Sacile con lui bimbo in fasce nel primo decennio fascista, la tenera madre che lo guarda con “dolcezza crudele” ed il padre, ufficiale dell’esercito, con spalline sciabola e cappello, «guerriero piccolo borghese», la cui “voce interiore” recita nel preambolo: «Eccolo questo qui, il  figlio, che un po’ alla volta prenderà il tuo posto nel mondo. Sì, ti caccerà dal mondo e prenderà il tuo posto. Ti ammazzerà. Egli è qui per questo. Lo sa. La prima cosa che ti ruberà sarà la tua sposa, la tua dolce sposa che credi sia tutta per te. E invece c’è l’amore di questo qui per lei; e lei, già, lo sai, lo ricambia, ti tradisce…». Omosessualità ed incesto nella sua contestualizzazione storica della madre adorata con la quale sempre convisse, qui Silvana Mangano. E nell’epilogo di Citti cieco che si estasia nella Piazza Maggiore davanti al bel San Petronio della sua natale Bologna. La parte mediana tra questi due estremi l’esplorazione del mito. Chi vuole struggere in questa magia la troverà in YouTube. Di essa lo stesso regista, nella sua “ansia autobiografica” dà la lettura sulla linea di quell’interpretazione del “complesso”, inventato da Freud e diventato sua “coessenza”: «in Edipo, io racconto la storia del mio complesso di Edipo. Il bambino del prologo sono io, suo padre è mio padre, ufficiale di fanteria, e la madre, una maestra, è mia madre. Racconto la mia vita mitizzata, naturalmente resa epica dalla leggenda di Edipo». Destino né predestinato, né da lui deciso, ma prodotto dall’esposizione sul Taigeto come i proietti e i figli deformi, la “gettatezza” pasoliniana. L’odierna messinscena di Robert Carsen poco corrisponde alle ipotesi e alle profondità psicologiche della creazione sofoclea, a cominciare dall’immensa scalinata come simbolo dell’ascesi e dall’abisso edipico, collegamento tra palazzo del potere e cavea degli spettatori, secondo lo scenografo Radu Boruzescu che offre un personale simbolismo tra ostensione di stracci e paramenti funebri di un coro abnorme di ben cinquanta coreuti, spazio per tutti gli studenti dell’Inda, pur con un impianto coreografico di Marco Berriel, fedele a strofe e antistrofi e alla rispondenza del Rosario Tedesco, della corifea Elena Greco; suggestiva nel serpente dei coreuti.

 

Che dire della musica? È sempre un’eterogenea invenzione a seconda dei gusti e delle tendenze musicali del compositore, qui il rumeno Cosmin Nicolae a rappresentare l’internazionalità di compartecipazioni. Certo non possiamo esimerci dal segnalare, per quanto ci riguarda da vicino, a parte l’opera lirica di Ruggero Leoncavallo, l’altro pregio dei tre preludi sinfonici musiche di scena di Ildebrando Pizzetti. Poco si confà l’oscena nudità (le  αἰδοῖαle “vergogne” omeriche o le pudenda latine), sopra le righe, in un personaggio simbolo della tragicità della gnosis umana e della sua catastrofica hybris, la sua tracotanza nel momento in cui si ostina a volere squarciare quel velo, nonostante i consigli e le negazioni di tutti. Mi sorprendo a ripetere quel dantesco rifiuto di riconoscere i limiti umani: «State contenti, umana gente, al quia; / ché se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria (Purgatorio, III, 37-39) con il suo rimando ad Aristotele e Platone. Perciò ancora la volontà di eseguire la legge del contrappasso, di rinunziare a quella vista che lo aveva fuorviato, che lo aveva spinto a guardare dove non avrebbe dovuto. Fino a che: «Ahimè! Ahimè! Tutto sarebbe giunto chiaro. O luce! Per l’ultima volta ora ti possa vedere, io che son chiaramente nato da chi non bisognava, convivendo con chi non bisognava, uccidendo coloro che non dovevo» (1182-85). L’epilogo corale d’altronde, come è in genere uso di Sofocle, chiude con la morale del mito, il sugo della storia, additando Edipo:

 

Or vedete, o abitatori del natío suolo, o Tebani,

questo Èdipo, il potentissimo, che sciogliea li enimmi arcani,

né albergava contro alcuno dei Cadmèi gelosa cura,

in qual bàratro è piombato di terribile sciagura.

Or, mirando questo giorno luttuoso, non far stima

che beato sia veruno degli effimeri, se prima

scevro d’ogni orrido male – non sia giunto al dí fatale (trad. Romagnoli).

 

Si può dire che il canadese Carsen con le scenografie e i costumi realizzati dai laboratori dell’Inda, con i vestiti odierni come il doppiopetto e la cravatta borghesi, il brindisi della pura Giocasta, in tunica bianca, abbia voluto rendere attuale il dramma in perfetto stile borghese. Purtroppo non basta la fede nella parola onnicomprensiva e una semplificazione dei costumi per far rivivere quell’abisso di umana miseria che sprofonda nel nulla nonostante abbia superato la prova mortale della Sfinge, leone con volto da donna ed ali da uccello, che strangolava o divorava (Eschilo) chi non svelava l’indovinello delle zampe, il primo in assoluto (Qual è quell’animale che al mattino ha quattro zampe, a mezzogiorno ne ha solo due e la sera tre?). Chi avrà volontà  e fortuna di assistere allo spettacolo moderno – il teatro greco non esiste ed è irripetibile per sonorità timbriche del greco, sconoscenza delle danze e della musica, quel misto insondabile che si svolgeva nell’orchestra (ὀρχήστρα, da orchéomai, ὀρχέομαι “danzo”), oltre alla volontaria attualizzazione per fini di audience e di lucro – chi vorrà assistere ad uno spettacolo giocato su una trama antica che è tradotta nei contenuti e nelle azioni, può senz’altro godere ed applaudire l’eloquente Giuseppe Sartori, il dialettico Creonte – Paolo Mazzarelli, il mastodontico cieco Tiresia – Graziano Piazza, la supponente e perentoria Giocasta-Maddalena Crippa, habitué, ma non hanno nulla demeritato il servo di Laio – Cossia e i due messaggeri Cimaglia e Battaglia. Qualche défaillance recitativa? La gioventù delle presenze giustifica certe cadute di tonalità o sonorità, qualche infedeltà al testo. La prima a Siracusa fu data nel 1922 con le scenografie del celebre Duilio Cambellotti, traduzione, regia e musiche di Ettore Romagnoli. Poi calò l’oblio e fu ripreso nel 1956 con Andreina Pagnani e Salvo Randone, nel 1972 con Glauco Mauri e Valeria Moriconi e traduzione di Salvatore Quasimodo, nel 1990 con Anna Proclemer e Giancarlo Sbragia, nel 1998 regia ed Edipo Gabriele Lavia, nel 2003 con Sebastiano Lo Monaco, nel 2012 con Laura Moriconi e Ugo Pagliai, per citare i sommi.

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