Il rito del taglio dei capelli nel folklore iniziatico nuziale

(Carmelo Fucarino)

Sir Lawrence Alma-Tadema, 1860 – Morte di Ippolito

La tragedia attica, l’unica in parte a noi pervenuta, dalla forma arcaica di Eschilo (il Prometeo), fino agli esiti razionalistici del mito con la feroce critica agli indovini in Euripide, ha spesso inteso spiegare nello sviluppo della trilogia il valore etiologico dei culti praticati ancora dagli spettatori. Euripide si servì in modo quasi programmatico di questa conclusione nelle singole tragedie e nei drammi satireschi. Oltre alla volontà di strabiliare con una versione nuova e peregrina del mito c’è sempre in lui la ricerca di un αίτιον, di una “causa” o origine della vicenda. Perciò i riverberi e le allusioni a culti arcani delle divinità preelleniche che sopravvivevano al suo tempo, come relitti di un immenso naufragio. Le ritualità preelleniche diventavano in lui saghe umane di passione e morte, secondo quell’antichissimo precetto del τω πάθει μάθος, “con l’esperienza dolorosa l’ammaestramento” (ESCHILO, Agamennone, 177).

Di grande rilievo per la storia dell’antropologia e dell’etnologia e per la definizione di un culto che si mantenne quasi immutabile nei secoli è l’intervento di Artemide nell’esodo dell’Ippolito con la sua epifania di deus ex machina, armata di frecce.

Ella esorta Ippolito a non offendere Afrodite in punto di morte, promette di trarre vendetta di sua mano su qualcuno che è alla dea più caro. Chiuso il conflitto umano con la morte di Ippolito, si perpetua quello divino. Euripide però allude soltanto, ma non dice chi sarà la vittima. Nel mito il più caro ad Afrodite era Adone, che però muore durante la caccia, ucciso da un cinghiale. Poi il patto divino consolatorio: in compenso di questi mali grandissimi onori a Trezene. Così dal theologeion (θεολογείον), dove apparivano gli dei, proclama solennemente il nuovo culto: “fanciulle non aggiogate in matrimonio si recideranno le chiome in onore di te che per un lungo tempo raccoglierai grandissima angoscia di lacrime. Sempre ci sarà per te pensiero di canti musicali da parte delle fanciulle, e non caduto senza nome si tacerà l’amore, quello di Fedra per te”. In realtà la dea non fa che ribadire la continuità cultuale di riti antichissimi, ma vivi e praticati nella religiosità del suo tempo.

Pausania testimonia nella sua preziosa Guida dell’Ellade (II, 32, 1, 3-4) la sopravvivenza, a suoi tempi, del culto divino di Ippolito a Trezene: “A Ippolito, figlio di Teseo, è dedicato un famosissimo recinto sacro; vi sorge un tempio, con una statua antica. Dicono che il tutto sia opera di Diomede e che egli abbia anche per primo sacrificato a Ippolito: ma i Trezenii hanno un sacerdote di Ippolito che esercita la sua funzione a vita, e sogliono compiere sacrifici annuali. Inoltre celebrano anche un altro rito, per il quale ogni ragazza prima delle nozze si taglia una ciocca di capelli in onore di Ippolito e, tagliatala, la porta e dedica nel suo tempio” (pure in DIOD. IV, 62, 4). Pausania ritrovava a Megara lo stesso culto per un complesso familiare unitario, “la tomba di Pirgo, moglie di Alcatoo, prima che questi sposasse Euecme, figlia di Megareo e la tomba di Ifinoe, figlia di Alcatoo: dicono che questa sia morta ancora vergine. Le ragazze sono solite, prima del matrimonio, offrire libagioni alla tomba di Ifinoe e consacrarvi parte della loro chioma, come un tempo le ragazze di Delo offrivano la loro chioma ad Ecaerge ed Opi” (I, 43,4). Queste dee sono tutte ipostasi ed epiteti di Artemide. Opi era presente a Efeso, Creta, in Laconia e in Tracia. Erodoto, ricordando l’invio a Delo da parte degli Iperborei di offerte avvolte in paglia di grano per mano di due fanciulle, Iperoche e Laodice, pure esse epiteti di Artemide, dice di sapere che, “quando sacrificano ad Artemide regina, non senza paglia di grano compiono sacrifici”, “mentre in onore di queste vergini venute dagli Iperborei e morte a Delo, si recidono le chiome, ragazze e giovani di Delo. Le une, tagliandosi prima delle nozze un ricciolo e avvoltolo intorno a un fuso, lo depongono sulla tomba – la tomba è a sinistra per chi entri nell’Artemisio, e le sorge vicino un ulivo -, tutti quanti i ragazzi di Delo, avvolta attorno ad uno stelo verde una ciocca di capelli, la depongono anche loro sul tumulo. Esse hanno tale onore dagli abitanti di Delo” (ERODOTO, Storie, IV, 33-34).

L’epiteto Ecaerge “colei che agisce da lontano” si ritrova nell’Inno a Delo di Callimaco, dove il poeta canta che “tra le bionde Arimaspe [donne di un popolo degli Iperborei], per prime ti portarono queste offerte le figlie di Borea, Upi e Loxò e la beneaugurante Ecaerga e i maschi, i più valenti dei giovanetti […] Le giovani di Delo, quando l’armonioso imeneo spaventa le abitudini di fanciulle, portano la coetanea chioma alle vergini, i maschi il primo fiore della barba ai celibi […] Gli uni intonano il canto del vecchio Licio che riportò il profeta Oleno da Xanto, le altre, le fanciulle, battono il suolo saldo con il piede. Allora si ricopre di corone la sacra statua pronta a dare ascolto di Cipride antica, eretta un tempo da Teseo, quando navigava con i fanciulli da Creta” (vv. 291-309). Era un simulacro tanto antico che aveva la destra consunta dal tempo (PAUS., IX, 40, 3). Il culto è ripreso in un libro straordinario, La Dea Siria (60), attribuito a Luciano, proprio quello degli strabilianti dialoghi degli dei, delle cortigiane e dei morti, ma anche dell’avveniristica Storia vera e di Lucio o l’asino, e nella variante locale del culto di Damia e Auxesia (J. G. Frazer, Il ramo d’oro, III, pp. 226-7).

Era un rito di iniziazione femminile, il passaggio eccezionale nella vita della donna, dalla verginità, della quale Artemide e il faredro erano custodi, alle nozze. Oltre che a Trezene era praticato in Attica e in quasi tutte le regioni, con varianti connesse con il rituale di dono votivo ai defunti (Martin P. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion). Variavano pertanto nei diversi luoghi la divinità e perciò l’eroe in onore del quale era fatta l’offerta. Così il ricciolo donato da Oreste sulla tomba del padre, così la celebre chioma di Berenice, sposa di Tolomeo III Evergete, divenuta costellazione nell’epillio di Callimaco (stregati lo tradussero Catullo e Foscolo).

Ancora in Euripide (Ifigenia in Tauride, 1464-69), l’Ifigenia-Artemide instaura a Brauron la consacrazione a lei delle vesti delle donne morte di parto, un rito di passaggio del parto, per dotare di forza ed energia i bimbi nati a prezzo della vita della madre. Qui erano celebrate le Grandi Brauronie, dove ogni quinquennio fanciulle dai cinque ai dieci anni, con una veste color zafferano, erano consacrate alle dea con il rito della arkteusis o “orsizzazione” o delle “orse” (αρκτευσις, αορκτοι), la trasformazione in orsa totemica, ove l’orsa era la luce lunare, cioè la Ifigenia, dea e in seguito ipostati di Artemide – Diana. Si trattava qui del passaggio della donna dalla sfera del padre a quella del marito. Ma questa è un’altra storia.

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