BATTISTA TRIGONOMETRICO

BATTISTA TRIGONOMETRICO, La ricchezza del cuore, San Lucido, Edizioni Albatramonto, 1970, da  “ LA DONNA CHE PARLAVA AI LIBRI”

di Dante Maffìa


Prima parte

Circa quaranta anni fa a Palermo fu organizzato un convegno al quale parteciparono professori universitari e poeti, giornalisti e critici di fama. Si parlò della funzione della poesia, della sua permanenza nella società dell’epoca, e si arrivò alla conclusione che la poesia doveva ormai abdicare alla sua tradizione, uscire dall’alveo in cui era stata fino ad allora e trovare la sua strada maestra attraverso la scelta oculata delle parole. Alcune parole avevano un senso, altre erano un ornamento di cattivo gusto, zavorra che inficiava i testi e gli dava una consistenza patetica di tardo e trito romanticismo. Così la parola cuore fu bandita dalla poesia. E se qualcuno si distrasse o sentì la necessità di lasciare nelle pagine la ormai ignobile parola, dagli storici della letteratura italiana e dai critici militanti fu bollato come passatista, arretrato, antiquato, obsoleto, penoso, mesto e lamentoso. Si sprecarono gli attacchi frontali chiamando inutili i poeti che non avevano capito il mutamento in atto, anzi le mutazioni che sono “rigenerazione sostanziale dell’universo”. Alcuni addirittura rischiarono il linciaggio durante gli incontri e i recitals nei teatri e nei club, nelle associazioni culturali e nelle università. Il decreto era perentorio e chiaro: “Chi trasgredisce sarà cancellato dalle antologie, dai dizionari, dai repertori. È tempo ormai di occuparsi soltanto di guerre, di rivoluzioni, di battaglie, della quotidianità opaca, quella sempre trascurata, messa in disparte. Non so, trattare della digestione, del sudore, delle ascelle sporche, della lettiera del gatto e della cuccia del cane, di un lampadario non funzionante, di un tavolo zoppo, di un barattolo vuoto di nutella lasciato ai bordi di una strada in una solitudine completa, del letto sfatto, degli sbadigli, non trascurando nulla, proprio nulla per essere fedeli alla realtà fino in fondo e dare della realtà, finalmente, la giusta immagine, la sua fisionomia, il suo decoro.
Il cuore invece non è realtà, anzi porta lontano da essa, e proietta sulle cose e sui sentimenti un’ombra lunga e fastidiosa, è parola che racchiude troppe lacrime, troppi sentimenti, troppe emozioni che concorrono a debilitare la forza del mondo, a renderla priva di mordente. Il cuore è la sede del pianto e chi piange finisce per essere perdente, marginale, reietto. Inoltre dicevano di avere accertato che più fitta era la presenza della parola cuore nei testi e meno i testi davano emozioni, tra l’altro; la sua presenza creava una sorta di astrazione dei sentimenti, inficiava la bellezza e la obiettività espressiva. Non valsero le tesi degli oppositori, di chi riteneva che invece la validità di un’opera poetica è legata alla profondità e alla finezza espressiva, alla originalità del dettato.
Ci fu una bagarre insistita, sulle pagine dei periodici si scrissero parole di fuoco contro chi invece sosteneva il contrario e si arrivò a dire che ormai era il caso di stabilirlo una volta per sempre: “La poesia di Dante, di Tasso, di Ariosto, di Shakespeare, di Milton, di Goethe, di Byron, di Leopardi e di Foscolo, di Carducci e di Pascoli è anticaglia, zavorra, ostacolo, impiccio e impaccio alla trasparenza della verità”.
Fu una querelle altisonante, che vide in prima fila quei poeti che non possedevano un loro mondo interiore e si arrampicavano sugli specchi per esistere, svuotando i versi della loro funzione, assegnando loro una pretestuosa nuova funzione che sembrava essere appesa soltanto a una ressa di significanti in cerca di significato. Insomma, una pirandelliana farsa che non portava da nessuna parte, con conseguenze deleterie per la funzione della poesia che così divenne soltanto sfogo arido, strombazzare di sillabe vuote, ricerca del nulla sul nulla dei segni. Si andò avanti a colpi di scena, proprio come nei dibattiti politici durante i quali chi ascolta non capisce bene da che parte sta la ragione o il torto.
Contarono quante volte un poeta aveva adoperato la maledetta parola cuore, se si era limitato a usarla soltanto come metafora, come più volte è capitato a Dante (“dal cor dell’una delle luci”) o a Shakespeare, ma si finì per disquisire in maniera erudita, esageratamente erudita, e furono compilati lunghi elenchi di citazioni, ripescando anche autori ormai quasi dimenticati che ironizzarono, per altri aspetti, sulla parola in questione. Per esempio qualcuno ricordò che Carducci nomina il sole, nelle sue poesie, duecentotrentacinque volte (l’aveva contate Papini) e dunque chissà quante centinaia di volte De Amicis nomina il cuore. Insomma, fu una guerra lunga, e a chi non stava a cuore (pardon) il senso delle cose, ma soltanto i contorni, non interessò più di tanto. Meglio accodarsi alla moda, si disse, così non si resta indietro. Migliaia di libri di poesie furono pubblicati senza che una sola volta fosse presente la parola cuore. I poeti stavano attenti come sentinelle della gestapo nel setacciare i loro testi e verificare se gli era scappato di nominare il cuore. Sarebbe stato un delitto e sarebbero rimasti fuori da qualsiasi gioco. Sui grandi quotidiani e sulle riviste importanti si gridò al miracolo della nuova poesia che vedeva il trionfo della cancellazione della parola cuore. A nulla valsero le proteste di studiosi della Bibbia, del Corano, delle religioni orientali che variamente intendono la funzione del cuore e gli danno una estrema importanza. La risposta dei sacerdoti della nuova religione fu perentoria: “Il cuore non ha ragioni, e se ci sono ragioni sono da cercare nella presenza delle cose di per sé, libere da qualsiasi relazione con un muscolo”. Fu proposto perfino di riesumare la salma di Pascal e di bruciarla in Campo dei Fiori a Roma, perché si era permesso di scrivere che “i grandi pensieri vengono dal cuore”.

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