Come eravamo: IL REATO SESSUALE NELLA SICILIA DEL ‘500

(Renata De Simone)

I.Tintoretto- Cristo e l’adultera

Una recente pubblicazione della professoressa M.Sofia Messana [1]dell’Università di Palermo fa luce su un aspetto della storia siciliana di età moderna che tocca intimamente il tessuto sociale della popolazione, penetrando nell’ambito recondito delle relazioni familiari e del comportamento etico dei soggetti che lo compongono.
Le considerazioni della studiosa sulle procedure giurisdizionali utilizzate per contrastare reati  perpetrati per lo più a danno di soggetti tra i più deboli della scala sociale, come donne maltrattate, bambini sfruttati, contadini poveri, gitani, sono supportate da esempi tratti da documentazione originale, che offre un piccolo seppur inquietante affresco della nostra terra.
Alcuni esempi.
Il 26 maggio 1549 ci celebra a Palermo, in piazza della Loggia un’autodafè del Tribunale dell’Inquisizione, che vede tra gli imputati un tale Juan Maurici, di professione sarto, condannato per bigamia alla pena di 200 frustate assestate lungo le vie cittadine, mentre gli effetti giuridici ricadenti sulle due famiglie e sulla seconda unione, considerata nulla, sono demandati al Foro ordinario vescovile.
L’11 settembre 1556 Francesco Delfino, bigamo, è condannato con rito sommario al domicilio coatto a casa della moglie legittima dalla Corte Vescovile di Monreale.
Questo Foro ecclesiastico che seguiva un rito abbreviato era particolarmente indicato nel giudicare tali fattispecie di reati che interessavano categorie sociali disagiate che non potevano affrontare le spese legali ed  erano spesso in difficoltà nel trovare una rappresentanza nei tribunali ordinari.
Dopo il Concilio di Trento si assiste ad un inasprimento delle pene comminate per reati sessuali, spiegabile con il rafforzamento dell’ortodossia religiosa e il conseguente irrigidirsi  del giudizio morale su norme di comportamento di tipo sociale o interfamiliare.
Il 1 aprile 1572 l’Inquisizione di Messina condanna il bigamo Benedicto de Amato a subire 200 frustate, dopo aver ascoltato la sua condanna legato ad una corda con una candela spenta in mano e a remare per cinque anni nelle galere.
Il reato più presente nei Fori ecclesiastici di età moderna è l’adulterio considerato dal diritto canonico crimine nefando, che comporta la pena delle pubbliche frustate, del bando, in certi casi del sequestro dei beni. Nel caso in cui l’accusa riguardava una donna, si ricorreva alla  prova apportata dalla pubblica fama e alla testimonianza dei parroci del quartiere per accertare se fosse solo un’adultera o anche una meretrice e quindi fonte di pericolo e di scompiglio per tutta una compagine sociale di appartenenza.
Singolare appare la vicenda che ruota attorno ad una certa Caterinella, vissuta a Palermo a metà del Cinquecento. Il marito, Bartulo Furnari denunzia la suocera di lenocinio nei confronti della figlia (Caterinella), sua moglie . Il foro vescovile condanna la ragazza adultera al domicilio coatto nella sua casa del Cassaro, sub pena di onze 25 e diffida l’amante Gaspare de Asta a visitare la donna. Essendo questi cugino di Bartulo, suo parente secondo la legge canonica, all’accusa di adulterio si era aggiunta quella d’incesto.
Una vera storia d’amore ci è poi descritta dall’autrice e riguarda una giovane palermitana, Petruccia, fatta evadere mentre era ancora novizia dal Monastero della SS.Trinità e forse sposatasi con Paolo Bruno, di cui porta il cognome. Condannata dal Tribunale laico a dimorare per altri due anni in Monastero, alla fine della pena, ripudiata dalla famiglia, viene affidata allo stesso Paolo, su richiesta di quest’ultimo, presentata presso il Foro ecclesiastico della Visita, che gli concede di ricongiungersi a lei, ma di tenerla chiusa nella sua dimora nel quartiere di S.Caterina all’Olivella, sotto pena di onze 15.
Una vita da prigioniera, quindi, ma prigioniera per amore.


[1] M.Sofia Messana RITO ORDINARIO E RITO SOMMARIO NEI TRIBUNALI ECCLESIASTICI IN SICILIA, Palermo 2009

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