La Passione secondo Nikos Kazantzakis

(Carmelo Fucarino)

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Ancora un’altra scelta originale del direttore artistico Antonio Cognata con una eccezionale produzione del corrente cartellone del Massimo, il nuovo allestimento in prima assoluta in Italia, The Greek Passion, opera in quattro atti, musica e libretto del ceco, naturalizzato statunitense, Bohuslav Martinů (1890-1959), prima assoluta al Covent Garden (ancora nel 2000) nel 1957. L’opera è ispirata al romanzo Christ Recrucified (Londra 1954) del prolifico scrittore cretese Nikos Kazantzakis (1883-1957). Questi acquistò fama internazionale con il romanzo, Zorba the Greek (1946), ridotto nel 1964 dal cipriota Cacoyannis in un film con Irene Papas e Anthony Quinn che ballò il celebre Sirtaki di Mikis Theodorakis, che ne trasse il balletto. L’omonimo musical a Broadway ebbe nel 1968 305 recite. Ulteriore fama lo scrittore la raggiunse con la controversa The Last Temptation of Christ, all’indice delle chiese ortodossa e cattolica, nella riduzione cinematografica del 1988 di Martin Scorsese con Willem Dafoe e Harvey Keitel.

La serata, attesa come evento musicale europeo, si è aperta con qualche defezione e con una certa diffidenza del pubblico di appassionati, ma si è conclusa con una lunga ovazione a tutti gli interpreti, all’affollato palcoscenico, al direttore israeliano Asher Fisch, assistente di Daniel Barenboim, al regista Damiano Michieletto (scuola Paolo Grassi).

Martinů, formatosi al Conservatorio di Praga da dove fu espulso per motivi disciplinari, fu fino al 1923 secondo violino dell’Orchestra Filarmonica Ceca. Trasferitosi a Parigi con una borsa di studio, incontrò Igor Stravinsky e il "Gruppo dei Sei" che lo avviarono al surrealismo. Intorno al 1928 fondò assieme ad altri l’École de Paris. Nel 1940 si trasferì per la guerra negli Stati Uniti e insegnò alla Princeton University. Tornato per un breve periodo a Praga, nel 1948 si stabilì definitivamente in Usa, dove tra gli altri ebbe come allievo Burt Bacharach. Stimolante il soggiorno romano dal 1953 al 1955. Oltre a sei sinfonie e numerosi balletti e brani strumentali, scrisse una decina di opere, fra le quali nel 1938 una Julietta e una Mirandolina nel 1959.

Evidenti in quest’opera le incidenze della diverse fasi della sua formazione artistica e culturale, a cominciare dalla sua terra ceca rievocata nei ritmi popolari, i due interventi con fisarmonica e violino in scena, ma anche le precise interferenze impressionistiche, le architetture spiccatamente neoclassiche alla Stravinsky, e pure le sue più lunghe ed incisive frequentazioni newyorkesi con le vocalità jazzistiche nero-americane. Su queste mescolanze originali di una cultura sospesa tra l’Europa delle due catastrofi e l’America del New Deal, l’apprendistato praghese del rigido contrappuntismo neobarocco con Josef Suk. Da una parte la semplicità dell’architettura generale dall’altra la levigatezza virtuosistica di alcuni pezzi, ma anche la grandiosità dei corali. Certamente un lavoro musicale assai complesso ed eterogeneo, lontano dalla musicalità dell’opera all’italiana, del belcantismo e delle melodiche romanze.

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Poi l’attualità del tema forte dei profughi: la difesa a riccio dei locali, il popolo di Lycovrisi, che li scaccia con la pretestuosa accusa di contagio di colera, gli appestati di ogni tempo, per l’oscuro mìasma dello straniero da trattare con guanti e mascherine; il recinto dei fuggiaschi (anche da derubare?) tra fame e morte, i cristiani refugees, i rifugiati scampati alla conquista turca, quelli che gli odierni media di ogni colore con innocuo eufemismo chiamano “migranti” (non e- o in-), che mi sa di uccelli di cellule o reni. Sopra questo scenario aleggia ingombrante la dirompente questione religiosa, tema sempre presente nella meditazione tormentata e problematica di Kazantzakis, qui il dissidio interno alla fede nel giorno di Pasqua con il tema della Passione vivente, dilaniata tra realtà e finzione per la contrastata scelta delle parti, una Maddalena pietosa e solidale, la vedova Katarina (Judith Howarth), peccatrice convinta e dichiarata che donerà la sua pecora ai fuggiaschi, un Giuda rinnegato del conciatore Panait, che però alla fine ucciderà a mani nude il pastore Manolios (il bravo tenore Sergey Nayda), ipostasi di Cristo, e perciò turbatore dell’ordine e scomunicato, escluso dalla comunità, come l’Edipo portatore di peste ad Atene; e infine, non poteva mancare, la vera guerra religiosa, ancora non interetnica, ma interna al cristianesimo, prima che si inventasse un capro espiatorio, il pericolo globale, il diavolo, l’”uomo nero” islamico, combattuta nell’antitetica lettura dell’Evangelo, il Buon Annunzio, dei due papas, il rigido, fanatico e integralista Grigoris (Mark S. Doss), e il carismatico solidale umano, il fuggiasco Fotis, la “Luce” (Luiz-Ottavio Faria).

Dichiara il regista: «Quest’opera parla di noi. La condivisione fa sempre paura e la nostra umanità tende in primo luogo a proteggere se stessa e poi, eventualmente, a condividere ed accogliere. È una vicenda che non manda a casa rassicurati, anche se non ho voluto calcare la mano sull’aspetto tragico e sull’ipocrisia».

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