Un Ulisside a Milano

(Carmelo Fucarino)

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Triste mestiere scrivere, a caldo, il consueto “coccodrillo”, in genere preconfezionato, per un uomo che, preso dalla passione per la sua isola, ne riviveva giorno per giorno, allora nelle sue prime scritture, oggi nella percezione dell’addio la nostalgia attraverso il «destino d’ogni ulisside di oggi», come soleva dire. Perché da ieri sera, quando si è diffusa la notizia della sua scomparsa, tutta la stampa è stata inondata da encomia post mortem, da analisi ed esaltazioni della sua carriera letteraria. Certamente in questi suoi ultimi giorni angosciosi di annientamento ha rielaborato e rivissuto sulla propria carne quella sua esperienza letteraria, «l’uomo più solo sulla terra, senza un compagno, un oggetto, l’uomo più spoglio e debole, in preda a smarrimento, panico in quel luogo estremo, sconosciuto, che come il mare può nascondere insidie, violenze». Si chiedeva: «Chissà se Ulisse ha toccato il punto più basso dell’impotenza umana, della vulnerabilità. Come una bestia ora, nuda e martoriata, trova riparo in una tana, tra un olivo e un olivastro (spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio d’una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura), si nasconde sotto le foglie secche per passare la notte paurosa che incombe». Chissà se anche lui come il suo Ulisse ha rivissuto «grida gioiose e aggraziate di fanciulle, di Nausicaa e delle sue compagne».

Io oso immaginare che, come il sublime Edipo che svanisce nell’amato Colono, anche lui si è dileguato fra i prati profumati e il fruscio del grano nella sua Sant’Agata di Militello, assordata dal frinire delle cicale. L’olivo e l’olivastro è del 1994. Già da allora sentiva struggente quella condizione di “sradicato” nella speranza del ritorno. Gli era rimasta lontana quella Milano che lo aveva accolto come dipendente dalla RAI (il radioso 1968), tra la spinta, si dice di Sciascia, ad emigrare e l’amore sanguigno per la sua isola, che ultimamente amava percorrere intera da un capo all’altro, « con un volo di un’ora e mezza». Dichiarava: «Dalla costa d’oriente o d’occidente, ogni volta, come per ossessione, vizio, coazione a ripetere, celebrazione d’un rito, percorro l’isola da un capo all’altro, vado per città e paesi, sperduti villaggi, deserte campagne, per monti e per piane, per luoghi visti e rivisti non so quante volte». E ancora «Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’ interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, di volerla vedere prima che uno dei due sparisca» (Le pietre di Pantalica). Presago tragico miraggio che atterrisce.

La forma dell’anima che dettava le sue raffinate e originali pagine letterarie era stata sempre l’isola, a cominciare dalla sua opera prima La ferita dell’aprile del 1963, le avventure e le ribellioni di un ragazzo in un collegio cattolico di un paese siciliano (i ricordi delle bombe sul paese). La sua vera iniziazione era avvenuta con quel misterioso Antonello del Museo Mandralisca sul quale costruisce la storia di Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, nello sfondo del 1860 e della rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, una Bronte messinese, dopo le promesse garibaldine nel suo Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976. Siamo agli anni dell’Einaudi (1977), quelli della scoperta della prosa ritmica, quell’elegiaca risultanza di prosa poetica che già aveva fatto la prova in Conversazione in Sicilia di Vittorini (Letteratura, 1938-39). Da allora la sua esperienza di scrittura e di vicende sarà all’insegna del ritorno verghiano (suo accostamento) o, diciamo, della rêverie trasognata di tanti altri emigrati della cultura che hanno ripercorso e rivissuto la Sicilia. Così dopo nove anni in Lunaria (1985) e poi in Retablo (1987), così in Le pietre di Pantalica (1988), Lo Spasimo di Palermo (1998), Di qua dal faro (1999), fino all’ultimo Il corteo di Dioniso del 2009. Tutto verificabile in quella portentosa autobiografia di Nottetempo casa per casa (Premio Strega 1992). Su tutta la sua produzione onnipresente la sua terra, in una elaborazione del ricordo, che spesso diventa nostalgia e si mitizza in elegia, in stati d’animo, si dice rivissuti da lontano (resi veri dalla distanza?), attraverso un linguaggio che si tinge di elegia e acquista i ritmi della rimembranza poetica. In questo riandare nei ricordi dell’età dell’oro, nell’infanzia perduta e mitizzata la radice di quel “male di vivere”, il “male oscuro” (prova del grande Giuseppe Berto del 1964), quel malessere esistenziale che si è perfezionato tragicamente nel rifiuto degli ultimi giorni. A me piace ricordarlo negli anni del premio Mondello e della mia prima uscita poetica con Città e ancora città, in quel volto radioso che ancora si illuminava di gioia al sole di Mondello dei primi anni Ottanta. Senza odiosi e insensati paragoni con siciliani di successo poliziesco e di linguaggio surreale e inesistente, come il dialetto di Verga, senza eccessi definitori («Consolo “padrino” della lingua barocca», Il Giornale di oggi titola il “coccodrillo” di Giuseppe Conte o il fantasioso paradosso “sperimentatore tradizionalista” di Eleonora Lombardo in La Repubblica).

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