OTELLO A PALERMO

( Salvatore Aiello )

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Gustavo Porta e Julianna Di Giacomo

Dopo ben quindici anni,Otello è tornato sulle scene del Massimo di Palermo, ancora un omaggio alla genialità del bussetano che nonostante gli anni e dopo un lungo periodo di silenzio tornava a dare fiato alla sua capacità creative, dando vita ad un capolavoro, monumento estremo della personale visione dell’esistenza e della lunga frequentazione con Shakespeare, sin dal Macbeth, mentori Ricordi e Boito. Gli anni dal 1871 (Aida) al 1887 data del debutto dell’opera alla Scala, segnano lunga elaborazione e conquista di un rinnovato linguaggio che forzatamente doveva fare i conti e confrontarsi con le nuove istanze del pensiero wagneriano e dei suoi neofiti. Non furono quegli anni sterili, tutt’altro, ma risultarono impegnati nella revisione del Boccanegra, del Don Carlo e nella stesura della Messa da Requiem in memoria di Manzoni. Da tutti quelli che gli chiedevano di militare ancora nel teatro, il maestro prendeva le dovute distanze e per motivi personali, distratto anche dalla relazione con la Stolz, e per quel senso di indignazione nei riguardi dei nuovi compositori che avrebbero voluto rottamarlo.In una lettera a Boito così si esprimeva: “Ora fatene la poesia, sarà sempre buona per me…….per voi….per un altro”. 

Dopo lunga estenuante gestazione Verdi, dall’84 all’86 prese in seria considerazione il libretto consegnando ai posteri un documento altissimo della sua maturata arte nella consapevolezza che la vita umana è soggiogata dal destino che non consente all’uomo alcun respiro né alcun raggiungimento della felicità anche quando se ne profilano tutte le possibilità poiché il male nella terra è fortissimo e il bene è molto fragile.La vita dà con una mano e toglie con l’altra condannandoci al carcere dell’esistenza, allora Otello esce dai ranghi della sua vicenda circoscritta nel XVI secolo e assurge alla dimensione di un nuovo Prometeo. “ L’amore, la passione, l’angoscia e l’odio degli esseri umani sono stati rappresentati ad un pubblico con una percezione più profonda ed acuta di questa musica? Credo di no. Lo stesso Shakespeare non fece e non avrebbe potuto fare di meglio; così si esprimeva nel 1931 Francis Toye. Lo spettacolo palermitano era stato anticipato da un incontro con il regista Henning Brockhaus ed il maestro Renato Palumbo intenti ad illustrare la visione e la lettura che avrebbero fatto dell’opera; c’erano apparse convincenti le loro argomentazioni perché sembrava che finalmente fossero riusciti a conciliare le ragioni della musica,del testo con l’azione.Purtroppo le aspettative sono andate in parte deluse; ci attendeva all’apertura dello spettacolo un antro nero, ferrigno come sinistro è il male, sin dal primo momento lo squarcio del velario di Bosch ci introduceva nel calvario dei personaggi senza possibilità di respiro; tutto implacabilmente definito e in qualche modo tradito anche da alcune amenità, una per tutte, durante il duetto d’amore, a chiusura del primo atto, Desdemona impegnata a cantare”Disperda il ciel gli affanni e amor non muti col mutar degli anni” invece ammassava cadaveri sul cui sudario avrebbe giaciuto ansante nell’estasi d’amore alla ricerca di conferme, testimone una Venere splendente. Troppo affollato poi ci è apparso il palcoscenico senza guizzi o idee portanti, disturbato anche da alcuni danzatori in pose lascive gratuite. Il peggio poi era nel canto: sin dall’Esultate, biglietto di presentazione di Otello, ci si è resi conto della caratura di Gustavo Porta, senza disturbare i memorabili fantasmi del passato ci siamo chiesti” Ma chi gliel’ha fatto fare” mettere a repentaglio la sua vocalità tecnicamente non agguerrita e carente di colore ed intensità drammatica a servizio di uno dei personaggi più tremendi che esigono squillo, armonici, accenti virili alternati con momenti di drammatici intimismi e brucianti perorazioni? Il tenore ha gonfiato le note e in qualche momento spinto al grido stentoreo si è mostrato insicuro del dominio del fiato con sensazione di poca fermezza nell’emissione; accettabile in qualche momento la voglia di scegliere percorsi interpretativi sentimentali. Giovanni Meoni prestava correttamente al suo Jago una voce ben timbrata e tecnicamente accorta senza però grandi approfondimenti psicologici né tanto meno interpretativi; ci è apparso poco furbo, poco cattivo, poco untuoso senza quindi consegnare la cifra completa dell’Alfiere che è l’allegoria dell’invidia, dell’uomo che non ha e che non è, dell’uomo vuoto che non può fare a meno di odiare Otello che rappresenta il pieno, quindi impegnandosi a svuotarlo infine riuscendovi. Di bel timbro e a pieno agio la voce di Julianna Di Giacomo, artista musicalmente portata più a cantare bene, con cura del suono, piuttosto che a scavare nel personaggio dimidiato da una presenza scenica poco espressiva e convincente. A testa dell’orchestra Renato Palumbo, considerato ormai direttore verdiano tout court che ha offerto ancora una prova interessante confermando talento e duttilità; ha retto lo spettacolo con controllo attento del golfo mistico e del palcoscenico regalandoci i momenti più incandescenti della partitura e soprattutto tenendo conto del nuovo tessuto della scrittura verdiana che lega in maniera imprescindibile la parola alla musica che ormai ha assunto la connotazione del canto di conversazione di cui l’orchestra ne ha avuta piena responsabilità e risoluzione.  Completavano il cast in maniera quasi anonima Giuseppe Varano (Cassio), Manrico Signorini (Lodovico), Maurizio Lo Piccolo (Montano), Anna Malavasi (Emilia), Pietro Picone (Roderigo), Riccardo Schirò (Araldo), Jean Méningue (Il clown); funzionali il coro istruito da Piero Monti e il coro di voci bianche curato da Salvatore Punturo. Le scene monotematiche erano di Nicola Rubertelli che si giovavano delle efficaci e suggestive luci di Alessandro Carletti; i costumi senza tempo erano di Patrizia Toffolutti. Tiepido il consenso del pubblico.

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