De profundis per Don Giovanni

(Salvatore Aiello)

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Foto Teatro Massimo

E’ tornato sulle scene del palermitano Teatro Massimo il Don Giovanni di Mozart con un nuovo allestimento prodotto dalle sue maestranze.  A distanza di più di due secoli rimane nella sua unicità un capolavoro, un’opera molto discussa che enuclea un personaggio che ha assunto via via una sua eternità scollato dal proprio tempo perché divenuto archetipo di una condizione umana. Nutrito l’elenco degli studiosi che si sono sbizzarriti a cogliere tutte le sfaccettature della sua diversità con diagnosi assai differenziate.  Don Giovanni risulterebbe, secondo alcuni, un nevrotico, un insoddisfatto, una creatura laica e demoniaca assetata di conoscenza, incapace di amare e comunicare; per altri un insofferente di ogni regola animato di autodistruzione, un omosessuale.Una fisionomia umana quindi che ci giunge carica di analisi, di giudizi per cui attrae o aliena simpatie.

 

“L’arte che è sacra non dovrebbe mai lasciarsi disonorare sino alla follia da un soggetto così scandaloso”così scriveva Beethoven e sulla sua scia Hector Berlioz giudicò una pagina “vergognosa” commessa da Mozart “contro il sentimento, contro il buon gusto, uno dei delitti più insensati che si possano citare nella storia dell’arte” e come se non bastasse Vincent d’Indy, parlò di “estrema monotonia che vi aleggia”. In compenso una rivalutazione la offrì Gounod che la definì “un’opera rivelazione”. Una nota convincente però la stese Kierkegaard: “Col suo Don Giovanni Mozart entra nella piccola schiera degli immortali il cui nome non sarà mai oscurato perché l’eternità li ricorda”; il tempo ha dato ragione al grande filosofo. Ancora dibattiamo su questa creazione e ogni volta che viene riportata sulla scena vive di una nuova sua vita che sfugge ad ogni catalogazione definitiva. E’ un riflesso forse della personalità labile di Da Ponte? Ci siamo convinti che la cifra più plausibile per leggere il soggetto è che egli vive da esteta in rapporto con la vita che per lui è solo godimento e rappresentazione del godimento; la sua sfera è l’immaginazione, la sua esistenza una continua rappresentazione teatrale. Egli inoltre rappresenta il potere e il piacere seducente che si compiace anaffettivamente ad allineare le proprie conquiste l’una accanto all’altra; la sua forza sta nell’eros che lo invera senza alcuna preoccupazione metafisica. In lui eros e thanatos coincidono attraverso un processo che per eternare l’amore ne erotizza la morte, l’istinto di morte quindi diventa desiderio di annientamento per ambire l’eternità in un continuo cupio dissolvi. Crediamo di capire che Lorenzo Amato, regista della nuova edizione, si sia lasciato affascinare da quest’ultima lettura, immettendo la biografia di Don Giovanni in una visione assai tragica che dall’inizio alla fine è una vicenda che nasce con un delitto e si conclude con la morte-punizione del protagonista. In un’atmosfera quasi sempre lugubre esaltata dalle luci di Alessandro Carletti, grazie alla struttura scenica rotante di Angelo Canu, si consumava la storia del seduttore più famoso di tutti i tempi in un continuo susseguirsi delle sezioni sceniche circolari dove i protagonisti agivano in un’atemporalità. Tanta la solitudine rappresentata e la fatica delle passioni unilaterali e irrisolte affidate da Mozart a due tipi di linguaggio: quello alto dell’opera seria (lo testimonia anche il virtuosismo di Donna Anna) e quello basso dell’opera buffa per cui il dramma è mescolato con la commedia, il pianto col riso così come la vita umana ha tocchi di serietà alternati a comicità e spesso l’una e l’altra vivono insieme. Per entrare in medias res dobbiamo rispetto a questa regia che pur apparendo monocorde nella sua tematica, ha avuto il buon gusto di non alterare od offendere il compositore. Ci ha conciliato meglio la musica; a capo dell’orchestra attenta e duttile c’era Stefano Ranzani che ha saputo amalgamare decisamente qualità del suono e visione interpretativa non disgiunte da tinte romantiche efficaci a servizio del canto, regalandoci fraseggi analitici pregni di rimandi;collaborato dalla presenza attenta e partecipe di Giacomo Gati al fortepiano. A sua disposizione un cast non del tutto omogeneo ma volenteroso e dignitoso, oggi in cui sono spariti i “cadetti mozartiani”, una tipologia di specialisti ormai impensabili. Comunque, primeggiava il protagonista che trovava in Carlos Alvarez una vocalità densa,calda, morbida,di bel colore,dall’elegante legato, piegata anche alle mezzevoci e alla capacità di un fraseggio nobile ed articolato. Con lui lo strepitoso Leporello di Marco Vinco in risalto per figura, espressività e sobrietà senza mai cedere a cadute di gusto e di tono; dotato di una interessante vocalità anche se di non soggiogante colore.  Ieratico nella figura e autorevole il Commendatore di Micail Ryssov. Su un piano meno esaltante stavano Tomislav Muzek un corretto Don Ottavio ai limiti della comunicazione e dell’emozione e Rocio Ignacio, nei panni della vendicativa Donna Anna che metteva a disposizione una voce piuttosto aspra e stizzosa inficiata da un fraseggio oscuro. Migliore la incinta Donna Elvira di Maija Kovajevska di salda professionalità e presenza nell’esprimere il rimpianto di ciò che la sua dolorosa esperienza le aveva regalato. Adeguatamente completavano il cast Barbara Bargnesi l’innocente-ambigua Zerlina e il combattuto Masetto di Biagio Pizzuti. I costumi di Marja Hoffmann tendevano a diversificare i personaggi venuti dal ‘700 con altri del nostro tempo in obbedienza all’idea del regista che la vicenda è sempre in fieri. Di buona presenza l’apporto del coro di Piero Monti. Calorosa l’accoglienza del pubblico.

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