Allons, enfants!

(Carmelo Fucarino)

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Foto Teatro Massimo

 

L’11 febbraio del 1840 sulle scene dell’Opéra-Comique di Parigi andava in scena una… opéra comique su testo di due librettisti francesi, La fille du régiment, ripresa il successivo ottobre alla Scala di Milano. Il compositore bergamasco era incontrastato protagonista delle scene europee, morto Bellini nel 1835 e ritiratosi Rossini che lo promuoveva all’estero. Sommerso dalle commissioni e travolto dal ritmico frenetico della “poetica della fretta”, venne a cantare anche in francese e onorò la Nazione con la marsigliese e tanti «Salut à la France! Vive la France!». Le sue più di settanta opere teatrali ci fanno pensare ai drammi dei tre grandi tragici greci, anche se per lui bisogna aggiungere le ventotto cantate e le 170 opere strumentali, eseguite da Milano a Napoli, da Parigi a Vienna, e perché non, a Palermo. Il 7 gennaio del 1826 rappresentò il dramma per musica Alahor in Granata al Teatro Carolino (poi Bellini dal 1848), del quale l’anno prima era stato nominato “maestro di cappella, direttore della musica e compositore di nuove opere”, con un compenso di 45 ducati al mese. Vi rimase dal 6 aprile 1825 al 14 febbraio 1826 tra la cronica mancanza di fondi e la pessima prova dell’orchestra, per la quale fu convocato dall’infuriato duca di Serradifalco, sovrintendente degli spettacoli pubblici. Nel portentoso 1840 erano state traslate da Sant’Elena a Parigi sotto una fitta nevicata le ceneri di Napoleone dal governo di Thiers di Luigi Filippo di Orléans che tentava di sconfiggere il “deficit di legittimità”. A Milano si apriva la prima ferrovia Milano-Monza, a Napoli si inaugurava la prima illuminazione a gas. Mentre Mazzini a Londra scopriva i fermenti delle masse operaie e si sanciva il diritto di autore, a dicembre Pierre-Joseph Proudhon si chiedeva Qu’est ce que la propriété? In questo anno strabiliante Donizetti incantava la Parigi delusa dove era stato già di casa nel 1835 con il suo Marin Faliero, con il capolavoro di La favorita e ancora nel 1843 con il Don Pasquale. Anche la piccola opera comica, dopo la prima alquanto freddina, restò nel repertorio stabile del teatro fino al 1896 con quasi mille repliche e fu in assoluto l’opera di un musicista straniero più osannata in Francia. Tutto comunque era stato preparato con cura per adeguare l’opera alle richieste del pubblico francese, prevenuto contro lo stile all’italiana che Rossini aveva portato all’implosione. Perciò il Moniteur universel scriveva: «Nella nuova opera tutto è francese di pensiero, di forma, di stile, d’espressione: è l’opéra-comique compreso con gusto, il teatro ben studiato». Anche se Hector Berlioz ironizzava sul Journal des débats: «è una cosa come se ne possono scrivere due dozzine all’anno, avendo la testa ben lubrificata e la mano scorrevole». Richard Wagner, che allora dimorava a Parigi, vedeva giustamente: «i maestri italiani per poter osare di presentarsi al pubblico parigino s’industriano di appropriarsi le grandi virtù della scuola francese; essi, come Donizetti dimostrò dianzi a tutto suo onore nella Favorite, tendono con ogni cura a una elaborazione formale più fine e più nobile». Donizetti difendeva naturalmente l’italianità, anzi affermava che «il buffo napoletano ci sta benissimo». Ma la prova di adeguamento al gusto francese si esprime già nell’ouverture, una delle più belle di Donizetti, con il lento tema introduttivo e i richiami del corno per rievocare il paesaggio alpino e il preannuncio di motivi ricorrenti nell’opera. E già ad avvio il dialogo semplicemente parlato, senza alcun accompagnamento neppure del basso continuo, che dava maggior risalto alle forme orchestrate e cantate, in confronto al ridicolo recitativo cantato, il “recitar cantando”, usato ancora da Mozart.

Il tema è assai semplice ed ingenuo. Maria è la vivandière, figura dell’esercito napoleonico, moglie di un veterano o sottufficiale che vende cibi e bevande. Qui è piuttosto la figlioccia dell’intero reggimento (Au secours de notre fille, Nous accourons tous ici. Oui, nous sommes sa famille), la fille du vingt-unième, diciamo la mascotte, con padre putativo il buon Sulpizio. La vicenda è giostrata intorno al classicissimo stratagemma dell’anagnorisis, l’agnitio latina, la nascita oscura e il riconoscimento, procedimento abusato nella commedia nuova e da Menandro e portato a canone comico da Plauto, ma soprattutto da Terenzio. Nulla di nuovo sotto il sole, da quando un poeta originale, forse in ambiente siculo o siceliota, pensò di imitare davanti a spettatori un’azione scenica, una vicenda quotidiana letta dal punto di vista parodico. Perciò la solita fanciulla umile che vive felice nel suo ambiente e nella sua attività servile, ma che è amata e rispettata da tutto l’Undicesimo. E in questo contesto la guerra e la paura dello straniero invasore in un villaggio del Tirolo (o della Baviera?), la paura e la preghiera alla vergine del Choeur de femmes (à genoux devant une Madone) che non sarà dimenticata da Verdi nel sublime inno a La vergine degli angeli. E presente naturalmente il leitmotiv del “rataplan”, canto e suono della vita militare, con il suo inno-manifesto che si esalta contro le insulse prove del canto salottiero della nobiltà castellana proposte con la romanza sugli amori di Cipride ed attribuita a un certo Garat, virtuoso francese. E l’amore contrastato, altro tema classico. Nel I atto, oltre al solenne corale del tamburo, con la presenza del Coro maschile e femminile come vero personaggio di stampo greco, la lunga elegia, struggente e sublime di Il faut partir, strumentata tra l’aria strofica all’italiana e i couplets francesi, preparata nel modello melodico ed espressivo di Una furtiva lagrima dell’Elisir d’amore del 1832: là il fagotto per l’inconsolabile malinconia di Nemorino, qui il timbro dolce e nostalgico del corno inglese. La melodia di Maria conferisce una serena rassegnazione alla struggente separazione che si sviluppa dalla triste tonalità del Fa minore al Fa maggiore, quel desolato e reiterato il faut partir, sul quale ha inciampato proprio alla fine la bravissima Desirée Rancatore. Ma se per la soprano non mancano le ardue preziosità canore che ne mettono alla prova le qualità cromatiche e la briosità recitativa comica, il banco di prova più alto è per il tenore Tonio, quell’esplosivo Ah, mes amis, quel jour de fete!, ma soprattutto quella insidiosa cabaletta, Pour mon âme/, la celebre aria "dei nove do di petto", con la ripresa di quattro doppie puntature al do conclusa da nona coronata. Troppo fastidiosi, bellicosi e sforzati per i tenori italiani che badavano a non spaccarsi le ugole, tanto che fu tagliata nella traduzione di Milano. Però con questi spericolati do si consacrò Pavarotti, divenne campione indiscusso e vanitoso Juan Diego Flóres dalla stagione scaligera del 2004-5. Oltre che nella raffinata ed ilare presentazione della famiglia della duchessa il ritmo parodico ed ironico da vero calembour stilistico culmina nel terzetto Marie-Sulpice-Marquise, quella travolgente scena della lezione di canto che nel Barbiere di Siviglia era parodiata da Rossini nell’aria di Caffariello, mentre qui si contrappone la canzone del reggimento, che da semplici battute iniziali si espande alla fine trionfalmente nel contrasto tra l’ancien régime e la canzone militare. Così pure nell’atmosfera della “monarchia borghese” e dell’eterna rivalità con la Prussia si sviluppa la satira anti-aristocratica e antitedesca della ridicola ed esilarante marchesa che da personaggio collaterale diventa protagonista nelle scene chiave dei coups de théâtre (l’addio di Maria e lo scioglimento finale dell’agon). Qualcuno ha ricordato la Grande-Duchesse de Gérolstein di Offenbach per la Marquise de Berkenfield. Che dire della ripresa delle scene e dei costumi di Franco Zeffirelli del 1959 e delle scenografie da imageries di Epinal e delle montagne svizzere innevate. Ci voleva finalmente un bagliore di colori e di luci in mezzo a tanto grigiore di caserme e di nude officine, di scatoloni semoventi, di grigi abitini borghesi, l’esplosione cromatica che dà forza alla comicità che sorge dalla realtà stessa. Così la sobrietà della direzione di Benjamin Pionnier, le soluzioni sceniche da avanspettacolo della regia di Filippo Crivelli, la gestualità ironica. Meritate le ovazioni, pur con la riserva della gloria patria (così anche per Vincenzo Taormina), ancor più quelle per Celso Albelo e per Francesca Franci, la vaporosa Marquise de Berkenfield, leggera, ma non troppo abusata la gestualità da en travesti di Filippo Luna, Duchesse de Crakentorp. Tutti indistintamente, tanto per non fare un elenco, hanno reso godibile una vicenda e un testo che porta bene i suoi 174 anni dai tempi di Philippe Égalité.

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