Un eroe sconosciuto

( Carlo Barbieri)

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Voglio parlare di un eroe sconosciuto. Di un giovane grande eroe, uno scout, il cui ricordo è riemerso, dopo essere affondato nelle gelide acque di montagna di uno sperduto angolo della nostra terra, solo in questi giorni. Come per l’uomo di Similaun, tornato alla luce dopo 5000 anni grazie allo scioglimento di un ghiacciaio alpino causato dal riscaldamento del pianeta, l’episodio, congelato nell’oblio per più di 50 anni, è tornato alle impigrite memorie dei protagonisti ancora periperi grazie a un lampo sinaptico, a una scintilla di memoria generata dal calore dell’amicizia e da un senile tiratira, pallido ricordo di quelli leggendari celebrati attorno a un fuoco di campo tanti anni prima.

Correva l’anno…

Correva l’anno 1961 e il Palermo 22, certamente il più glorioso riparto scout del mondo, metteva le tende alla Lacca, un altopiano circondato da monti in quel di Mezzojuso. I ragazzi si erano buttati con entusiasmo nell’avventura che li vedeva, molti per la prima volta, liberi dai condizionamenti familiari del “fai questo” e “non fare quello”. E così, fanciulli che a casa avrebbero rifiutato gli spaghetti al sugo “perchè c’era la cipolla” si contendevano famelicamente penne scotte recuperate dalla cenere in cui erano cadute; giovanetti abituati alla privacy del cesso di famiglia la facevano appollaiati come passerotti dagli implumi deretani su inverosimili impalcature, sprezzanti del pericolo di una probabile fine ingloriosa; ragazzi che in casa si sarebbero fatti ammazzare piuttosto che rendersi utili si davano da fare scavando, smartellando, erigendo, accendendo, cucinando, lavando. Per uno strano meccanismo psicologico, assimilabile a quello dei formicai, nessuno di loro avrebbe accettato nemmeno per un istante di rimanere privo di un compito da portare avanti con la dedizione di uno Stakanov. È qui che entra in scena il nostro eroe, di cui osiamo pronunciare con sommessa deferenza il nome: Carlo Barbieri. Il giovane esploratore, dismesso improvvisamente il lavativismo che lo aveva sempre caratterizzato, esauriti i compiti assegnatigli, entrava in crisi di astinenza già il primo giorno e cominciava a vagare per il campo urlando “Voglio lavorare! Fatemi lavorare”. Prontamente soccorso gli venivano somministrate dosi da cavallo di corvée di tutti i generi che presto lo rimettevano in sesto, ma ormai Gibiino, il Capo, gli aveva messo gli occhi addosso. Di notte la Lacca, con quelle alture che la circondavano riparandola dalle risparmiose luci elettriche delle rare abitazioni della zona, era una enorme bacinella sotto una cupola di miliardi di stelle appuntate su un nero immenso. Fu così che quella stessa notte il giovane Carlo, sovrastato dalla bellezza di quel cielo che non aveva mai visto, decise di dormire con la testa fuori dalla tenda, cosa resa facile dalla mancanza, nelle tende di allora, del catino. Voleva addormentarsi con gli occhi colmi di quello scintillio silenzioso, e ci riuscì. Ma non sapeva, povero cittadino, dell’esistenza “d’’u sirenu” e si risvegliò in piena notte con la testa bagnata come se avesse appena fatto la doccia, e fredda come un ghiacciolo. La ritirò subito come una tartaruga ritrae il capo nel guscio, ma non riuscì più a riprendere sonno. La tenda era ormai satura di afrori prototestosteronici ai quali, trascorsi i necessari tempi tecnici, si erano aggiunti enormi quantitativi di puzzolenti biogas che venivano espulsi a turno dagli altri occupanti con accompagnamento di sibili, trombette, esplosioncine e clackson da camion. Il sonno, o forse lo svenimento, sopraggiunse solo all’alba e fu seguito quasi subito dalla voce di Gibiino, il Capo, che dava la sveglia. Nessuno sa cosa avvenne nella di Carlo a quella violenza che lo strappava al tanto necessario sonno. Nessuno sa cosa gli scappò di bocca, ma si dice che Gibiino sibilasse fra i denti un minaccioso “Ti faccio vedere io”.E la vendetta arrivò puntuale. Quel branco di umanoidi maleodoranti per il sudore del giorno prima e per i gas fraternamente scambiati durante la notte necessitava di igienizzazione, e perciò quando Gibiino annunciò “ora ci facciamo tutti una bella nuotata” i poveri ragazzi avrebbero dovuto capire che c’era sotto qualcosa: sarebbe bastato guardarsi intorno per rendersi conto che il mare lì non era arrivato nemmeno in epoca preistorica. E il mare infatti non c’era, c’era però una “gebbia”, un grande vascone pieno di orrida acqua verdastra. Il colore era causato da alghe che rendevano il fondo scivolosissimo, come apparve evidente al primo che osò mettere un piede dentro. Carlo, che aveva quell’approccio scientifico alle cose che lo avrebbe portato a studiare chimica, mise un dito nell’acqua. Era terribilmente gelida, ma evidentemente non al punto da non consentire la vita: la vita apparve infatti improvvisamente sulla schiena del coraggioso che si era buttato per primo sotto forma di una specie di vermotto marrone scuro, un esserino che si gonfiava a vista d’occhio e che in quel momento doveva essere felice per il miracolo che lo stava salvando da sicura morte per denutrizione: una sanguisuga. Gibiino, nella sua grande esperienza, aveva previsto la reazione del futuro chimico e lo catturò mentre quello si girava per tentare la fuga. Il poveretto venne immediatamente spogliato e buttato dentro senza tanti complimenti. Fu in quel momento che il prode ragazzo, costretto a soccombere alla violenza, decise di farlo con la dignità di un eroe e, portata la destra a un’immaginaria visiera, si inabissò lentamente e senza una parola in quel piccolo mare fra i monti della sua Sicilia, con i chiari occhi rivolti a quello stesso cielo che la notte prima lo aveva innamorato.

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